Addio manovre in deficit. Per il governo è finita la pacchia

L'ultima Manovra è stata finanziata per due terzi in deficit. Complessivamente con la Nadef Meloni ha chiesto uno scostamento di 23,5 miliardi.

Addio manovre in deficit. Per il governo è finita la pacchia

Col nuovo “Pacco di stabilità e decrescita”, come il leader del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, ha ribattezzato il nuovo Patto di stabilità, la pacchia per il governo è finita. Se ne accorgeranno presto – ma già lo sanno – il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e la premier Giorgia Meloni. L’ultima Manovra del governo è stata finanziata per due terzi in deficit. Complessivamente il governo con la Nadef ha chiesto uno scostamento di 23,5 miliardi tra il 2023 e il 2025: 3,2 miliardi nel 2023, 15,7 miliardi nel 2024 e 4,6 miliardi nel 2025, pari rispettivamente allo 0,1% del Pil nel 2023, allo 0,7% nel 2024 e allo 0,2 nel 2025.

L’ultima Manovra del governo è stata finanziata per due terzi in deficit. Complessivamente con la Nadef Meloni ha chiesto uno scostamento di 23,5 miliardi

Ebbene, in base alle regole della nuova governance economica europea questo non sarà più possibile, non sarà più perseguibile la strada delle manovre in deficit. Dunque il problema si porrà il prossimo anno, nella nuova legge di Bilancio per il 2025, quando al governo mancheranno 15 miliardi. Solo per riconfermare il taglio del cuneo fiscale ce ne vogliono 10. Da qui la previsione fosca di Conte: ci aspetteranno, ha dichiarato ieri in aula alla Camera, “manovre rispetto alle quali le due che già avete fatto saranno un felice ricordo. Lacrime e sangue: tagli alla sanità, tagli alla scuola, tagli al sociale”.

L’alternativa per reperire coperture certe è mettere nuove tasse. In più l’Italia a giugno prossimo andrà incontro a una procedura di infrazione avendo un indebitamento superiore al 3%. Pensare a una manovra correttiva in quel caso, sotto elezioni, sarebbe una mossa suicida, meglio rinviare la soluzione nella legge di Bilancio. Ma cosa stabiliscono le nuove regole su cui i ministri delle Finanze dell’Unione europea mercoledì hanno trovato l’intesa dopo due ore in video conferenza?

Quando il deficit supera il tetto del 3% del Pil – regolina che è rimasta uguale nel passaggio dal vecchio al nuovo patto – l’aggiustamento annuo richiesto è dello 0,5% del Pil. Per i Paesi che hanno un debito superiore al 90% però come il nostro non è sufficiente rispettare la regola del 3% ma l’obiettivo è portare il livello del disavanzo all’1,5% del Pil. Per raggiungere il target lo sforzo dovrà essere pari allo 0,4% per quattro anni oppure dello 0,25% in sette anni, calcolato al netto degli interessi sul debito con l’impegno del Paese a fare investimenti e riforme. La riduzione del debito dovrà essere dell’1% annuo per i Paesi che superano la soglia di un rapporto debito-Pil del 90% – come l’Italia – e dello 0,5% annuo per chi lo ha tra il 60 e il 90% del Pil.

Dalla prossima legge di Bilancio non rimarrà che alzare le tasse o tagliare la spesa

Tra il 2025 e il 2027 la Commissione europea, nello stabilire il percorso di risanamento dei conti, terrà conto degli oneri degli interessi sul debito sempre con l’obiettivo di lasciare ai Paesi spazio per gli investimenti. I Paesi sotto procedura dovranno concordare l’uso dei fondi pubblici con la Commissione europea nel rispetto delle traiettorie di aggiustamento del debito. I piani ad hoc sono quadriennali e all’insegna della flessibilità potranno essere estesi a sette anni tenendo conto degli sforzi di investimento e riforma compiuti dai governi per attuare i Pnrr. Nulla da fare per l’agognata golden rule.

L’Italia aveva chiesto di scomputare dal calcolo del deficit gli investimenti nella transizione green e digitale ma su questo i Paesi frugali, Germania in testa, hanno alzato le barricate. È il motivo di rammarico espresso dalla premier. “Sebbene il nuovo Patto contempli dei meccanismi innovativi volti a tener conto degli effetti di eventi esterni e straordinari nel computo dei parametri numerici da rispettare, rimane il rammarico per la mancata automatica esclusione delle spese in investimenti strategici dall’equilibrio di deficit e debito da rispettare. Una battaglia che l’Italia intende comunque continuare a portare avanti in futuro”, ha detto Meloni.

Alla fine solo le spese della difesa saranno considerate fattore rilevante nell’attivazione della procedura per deficit eccessivo. Un risultato che ha fatto saltare di gioia il ministro Guido Crosetto. E che ha fatto gridare allo scandalo i Cinque Stelle. “Incredibilmente, non vincoleranno gli investimenti per la difesa – e questo per noi è veramente scandaloso – in particolare quelli per nuovi armamenti”, hanno dichiarato i parlamentari pentastellati delle commissioni Politiche Ue e difesa di Camera e Senato.

Il nuovo Patto di stabilità presenta già il conto. Inevitabile la procedura d’infrazione per troppo debito

“Su richiesta dell’Italia, infatti, queste spese, e solo queste, saranno considerate come fattore rilevante per giustificare scostamenti dalle regole di bilancio, il che significa che la Commissione chiuderà un occhio su sforamenti dovuti a spese eccezionali in armi, garantendo a questa voce un trattamento privilegiato rispetto alle altre spese come sanità, istruzione e pensioni. Crosetto parla di ‘grande successo’ e ha il coraggio di dire ‘in un momento difficile come questo era giusto liberare risorse per sanità, sociale, interventi per la fiscalità e per la competitività delle aziende’. E allora, gli chiediamo, perché il governo italiano non si è battuto per escludere direttamente queste spese dal patto di stabilità, puntando invece solo su quelle in armamenti? La risposta è solo una: questo governo è succube della lobby industriale militare di cui Crosetto era presidente, oltre che dei diktat di Berlino e Bruxelles”.

Già, perché sul nuovo Patto di stabilità l’Italia non ha toccato palla. Tutto è stato deciso da Francia e Germania. Alla vigilia dell’Ecofin, il falco Christian Lindner ha deciso martedì di volare a Parigi e parlare, faccia a faccia, con il francese Bruno Le Maire. Le Maire e Lindner, parlando con i cronisti prima dell’incontro, avevano dichiarato che le probabilità dell’intesa erano vicine al “100%”. E avevano disegnato quello che appariva come l’ultimo pressing sull’Italia. Tanto che da Roma le parole di Parigi e Berlino erano state accolte nel silenzio. “Un’intesa franco-tedesca permetterà anche ad altri di dire si”, aveva sottolineato il ministro delle Finanze teutonico ribadendo quello che per Berlino resta un assioma: “La Germania non accetterà regole che non sono rigide, nel senso credibili, sufficienti ed efficienti” per il rientro del debito. E così è stato, il punto è che l’Italia le abbia accettate.