Armi, mea culpa di Bruxelles: regole aggirate. Nei Paesi in guerra l’Europa continua a esportare strumenti di morte

Le regole europee per controllare le esportazioni di armi fanno acqua. Analizzando la relazione sulle merci utilizzabili per uccidere, per torturare o comunque per infliggere pene crudeli, presentata la settimana scorsa dalla Commissione europea al Parlamento e al Consiglio europeo, le falle sembravano ampie. E ora sembrano essersene accorti anche a Bruxelles. La stessa Commissione, seppur timidamente, in una nuova relazione inviata all’Europarlamento, presieduto dal dem David Sassoli, ha fatto notare che qualcosa in quelle regole, che vietano l’export di determinati prodotti e per altri impongono l’autorizzazione preventiva da parte dei Paesi europei da cui partono quei carichi, è da rivedere.

Anche quando la ditta importatrice è considerata affidabile e viene garantito l’utilizzo lecito di determinate merci, appare piuttosto semplice in contesti complessi, con Paesi costantemente in guerra ed estremamente instabili, far arrivare in altre mani gli stessi prodotti e far sì in tal modo che vadano ad alimentare vere e proprie catene di orrori. Tra i Paesi per cui, negli ultimi due anni, i Paesi Ue hanno autorizzato l’export di armi e sostanze letali, compaiono ad esempio la Somalia e la Siria.

In Europa è stato costituito un gruppo di coordinamento sulla lotta contro la tortura, impegnato proprio a vigilare sul regolamento che mette tutta una serie di paletti all’export delle merci che possono essere impiegate per la pena di morte o la stessa tortura. Un organismo che si è riunito due volte in 24 mesi e che ora, guardando solo ai divieti relativi alle fiere commerciali e alla pubblicità, ammette che in alcuni casi le merci pubblicizzate su alcuni siti internet di fornitori europei lasciano immaginare che “il campo di applicazione dei divieti previsti dal regolamento può essere insufficiente”. Poco sicuramente. Ma almeno è una primissima presa di coscienza di regole che sembrano più una scusa per non vedere quel che produce un certo business piuttosto che per impedire di seminare morte in Paesi già devastati.

Del resto, come appurato proprio dalla Commissione Europea, nel solo 2018 l’Austria, la Repubblica Ceca, la Danimarca, la Francia, l’Italia, la Polonia, il Portogallo, la Slovenia, la Svezia, e soprattutto la Germania, i Paesi Bassi e il Regno Unito, hanno dato il via libera a esportare oltre 75mila armi a scarica elettrica e quasi 185mila armi e materiali portatili per la diffusione di sostanze chimiche, oltre a dare il permesso per far uscire dai confini nazionali 328 litri di pentobarbital, 52mila fiale di tiopental e 1,4 milioni di fiale di tiopental sale iodico, un tiobarbiturico ad azione ipnotica impiegato per effettuare l’anestesia generale, ma che ad esempio negli Usa viene utilizzato per praticare l’iniezione letale ai condannati a morte.

Merci che dal 2017 sono state dirette anche in Iraq, Sierra Leone, Libano, Sud Sudan, Yemen, Nigeria, Niger, Repubblica democratica del Congo, Kosovo e Bosnia. Tutto mentre spesso negli stessi Paesi l’Europa investe miliardi per le missioni di pace. Attività per cui solo quest’anno e solo l’Italia ha speso 1,4 miliardi di euro, inviando all’estero 7.400 militari. Un nodo che dovrebbe affrontare la nuova Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen.