di Clemente Pistilli
Ha tolto dalla circolazione un carico di armi, evitando che finissero in mano alla malavita organizzata, e le ha consegnate alla Polizia, ma anziché ricevere un premio è finito accusato di corruzione, falso e concorso in detenzione e porto illegale di un piccolo arsenale da guerra. Nonostante l’assoluzione, quello che all’epoca dei fatti era il numero due del Sismi di Bologna, un funzionario dei servizi segreti e uomo dello Stato, si è visto negare qualsiasi forma di risarcimento per essere stato detenuto ingiustamente. Protagonista del calvario giudiziario il bolognese Giovanni Ciliberti, coinvolto nell’inchiesta sulla Mala del Brenta.Era il 1995 quando, dopo due evasioni, finì nuovamente in manette il boss Felice Maniero, l’uomo che con la sua banda aveva messo a ferro e fuoco il Nord-Est, tra rapine, omicidi, traffici di armi e droga, in affari con Cosa Nostra.
“Faccia d’Angelo”, come è diventato noto alle cronache, decise di diventare collaboratore di giustizia e altri suoi uomini lo seguirono sulla strada del pentitismo. Un anno dopo gli inquirenti ordinarono così un blitz imponente, con 106 arresti di malavitosi e qualche colletto bianco. In arresto finì anche Giovanni Ciliberti, accusato di aver assicurato a Maniero un suo interessamento presso il Tribunale di Venezia, per fargli alleggerire la misura di prevenzione a cui era sottoposto, in cambio di un falso recupero di armi, utile al funzionario del Sismi a fare carriera. L’arsenale consegnato dal bolognese alla Polizia, proveniente dalla ex Jugoslavia e diretto alla mafia siciliana, venne bollato come un recupero fasullo, orchestrato dall’uomo dei servizi in accordo con il boss. In primo grado il reato venne dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, ma Ciliberti non si è arreso e ha fatto appello, ottenendo in larga parte un’assoluzione nel merito. Il funzionario dimostrò che era stato Maniero a contattarlo e non il contrario, che le armi le aveva subito consegnate alle forze dell’ordine e informato i superiori. Per i giudici, però, la condotta del funzionario non sarebbe stata esemplare e per tale ragione gli è stato negato prima dalla Corte d’Appello di Venezia e ora dalla Cassazione il risarcimento per ingiusta detenzione