Canone Rai, i conti non tornano. Nel mirino la riforma Renzi del 2015. Dubbi di costituzionalità sul sistema dell’extra-gettito. Sollevati in un parere legale chiesto da Laganà (Cda)

“Pagare meno, pagare tutti”, prometteva nel 2015 l’allora premier Matteo Renzi, esultando per la sforbiciata del canone Rai, addebitato direttamente nella bolletta elettrica, da 113 a 90 euro. “Prima pagavano 16 milioni di persone, adesso pagano 22 milioni di persone – si compiaceva l’ex segretario Pd -. Non è fantastico?”.

SERVIZIO A RISCHIO. Fino a un certo punto. Perché ora, a distanza di qualche anno, a finire sul banco degli imputati è il meccanismo dell’extra-gettito introdotto proprio dalla riforma Renzi. E in base al quale, per il triennio 2016-2018 (termine poi prorogato dall’ultima Manovra del Governo guidato da Giuseppe Conte), le eventuali maggiori entrate versate a titolo di canone di abbonamento alla televisione (l’extra-gettito, appunto) rispetto alle somme già iscritte nel bilancio di previsione sono riversate allo Erario nella misura del 33% nel il 2016 e del 50% nel 2017 e 2018, per essere destinate ad altri scopi. Tra i quali il finanziamento del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, istituito presso il ministero dello Sviluppo economico. Fondo al quale, lo scorso 31 dicembre 2018, per decreto ministeriale, il Tesoro ha destinato un extra-gettito di 86 milioni di euro.

Una questione sulla quale il consigliere del Cda di Viale Mazzini designato dai dipendenti Rai, Riccardo Laganà, ha acceso un faro chiedendo un parere giuridico allo studio legale Principato-Porraro. Le conclusioni sono inequivocabili. “Privare di sostanze la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo rischia di compromettere l’adempimento degli obblighi di servizio, con conseguente induzione all’inadempimento del relativo contratto”, si legge nel documento.

PIù COSTI CHE RICAVI. Ma non è tutto. Una recente determinazione della Corte dei Conti relativa all’esercizio 2017 di Viale Mazzini e citata nel parere, sottolinea che “le risorse da canone integralmente imputate al servizio pubblico specifico non sono sufficienti a pareggiare i costi sostenuti dalla concessionaria per l’assolvimento dei compiti di servizio pubblico”. In particolare, “emerge un disavanzo di 106 milioni”, dato dalla differenza tra i ricavi (1,855 miliardi) e i costi diretti e indiretti (1,961 miliardi). Insomma, concludono gli esperti, la riforma dell’extragettito è “incoerente con il quadro istituzionale e con la struttura e la funzione del servizio pubblico radiotelevisivo”.

Il parere, ovviamente, è finito sul tavolo del vertice di Viale Mazzini. “Ieri (giovedì, ndr) mentre eravamo in CdA alcuni parlamentari (il riferimento è ai 5S, ndr) si riunivano per abolire o ridurre il canone – fa notare Laganà a La Notizia -. Da una parte c’era chi stava lavorando per migliorare l’azienda e far partire il piano industriale che il Mise inspiegabilmente ancora non sta valutando. Dall’altra, probabilmente, si lavorava per destrutturare il servizio pubblico Rai. Il canone è già tra i più bassi d’Europa, eppure offriamo tanto. Possiamo migliorare? Certo. Con una riforma che stacchi il cordone ombelicale con i partiti e con risorse in grado di coprire i costi del contratto di servizio”.