La destra si affanna a inseguire complotti istituzionali inesistenti. È un’occupazione quotidiana, una postura difensiva utile a compattare il fronte quando le tensioni interne bussano troppo forte. L’ultima occasione l’ha offerta la cena in cui Francesco Saverio Garofani avrebbe evocato un «provvidenziale scossone» e una «grande lista civica nazionale». Il governo ha immediatamente alzato la voce, gridando al complotto. Eppure l’unica forza politica che dovrebbe davvero interrogarsi su quella conversazione è il Partito democratico. Perché il tema non è il rapporto fra Meloni e il Quirinale: il punto riguarda Elly Schlein, la sua cerchia e la pressione crescente che circola attorno alla segreteria.
I segnali che arrivano dagli ambienti istituzionali
Garofani non è un nome qualunque. È un consigliere del Quirinale, un ex dirigente del Pd, un uomo che conosce bene la geografia del centrosinistra. Le parole pronunciate in quella cena mostrano un giudizio diffuso in certe aree: l’opposizione non appare competitiva, e il Pd guidato da Schlein non è percepito come il perno di una coalizione in grado di contendere il governo.
È una valutazione che negli ultimi mesi si è manifestata in forme diverse. I richiami di Romano Prodi sullo stato dell’alternativa, le riflessioni di Paolo Gentiloni quando osserva che «l’alternativa non c’è ancora», gli interventi degli ex ministri che descrivono il partito come «disancorato dal Paese»: ogni affermazione sembra accompagnare l’evoluzione di un clima più ampio, in cui la leadership attuale viene considerata fragile o insufficiente.
Il Quirinale, nel suo ruolo, respinge qualsiasi ipotesi di ingerenza. È un punto fermo. Ciò che rimane, però, è la distanza. Sul piano internazionale, sulla guerra in Ucraina, sulle relazioni europee, sulla postura istituzionale, le sensibilità divergono. Il Pd ha scelto un’alleanza politica con un M5S restio a condividere pienamente la linea atlantica.
Questa scelta ha alimentato perplessità in chi ritiene che un’opposizione di governo debba presentarsi in modo più prevedibile. Le parole di Garofani non escono da questo contesto: lo riflettono. E indicano la difficoltà di riconoscere nella segreteria attuale un attore all’altezza delle aspettative dei corpi intermedi e di parte dell’élite istituzionale.
Il progetto civico che si allarga mentre il Pd si restringe
La vicenda accelera un processo già iniziato: quello della costruzione di un’area tecnica e civica che possa rappresentare l’opposizione se il Pd dovesse implodere ancora. Gli incontri di Ernesto Maria Ruffini, i comitati che proliferano nelle città, le candidature amministrative che emergono fuori dal recinto del partito – come Silvia Salis a Genova – sono tasselli di un disegno in cui il Pd rischia di diventare una componente secondaria di un’offerta più ampia e più gradita ai poteri tradizionali del centrosinistra.
Anche l’attivismo di alcuni amministratori, che parlano apertamente della necessità di «andare oltre i partiti», converge nella stessa direzione: costruire la cornice in cui una futura leadership nazionale possa nascere senza passare dal Nazareno. La “lista civica nazionale” evocata nella cena diventa così un simbolo. Non è un progetto definito; è un cantiere mentale.
È l’idea che sia possibile creare una nuova piattaforma politica attorno a figure percepite come affidabili, allargando il perimetro del centrosinistra senza affidarne la guida al Pd. Chi conosce la storia recente sa che questo schema riappare ogni volta che il partito sceglie una linea non gradita ai suoi ex padri nobili. I segnali pubblici sono temperati, quelli riservati sono invece più netti.
L’accerchiamento e la solitudine di Schlein
Nel partito scorre una corrente sotterranea che lavora ai margini del confronto ufficiale. I dirigenti più vicini alle posizioni riformiste intervengono a ogni occasione per sollevare dubbi sulla linea politica. Le riunioni riservate parlano di «riequilibrare il partito», di «mettere ordine nelle alleanze», di riportare il Pd in un “campo largo” ridisegnato dai tecnici, non dai militanti. Non è una contestazione aperta: è un lavorìo persistente che affida ai giornali e ai retroscena il ruolo di far emergere l’immagine di una segreteria circondata.
Il caso Garofani, in questo senso, è un acceleratore. Non perché riveli una trama, ma perché mostra la convergenza di umori che da mesi si muovono negli stessi cerchi: ambienti istituzionali preoccupati dalla direzione presa dal Pd; riformisti che non si riconoscono nel profilo identitario scelto dagli iscritti; amministratori civici pronti a presentarsi come alternativa interna all’opposizione. L’insieme compone un quadro coerente: il Pd è tornato ad essere osservato con diffidenza da chi per anni ne ha determinato il baricentro politico.
Il risultato è un partito che appare sospeso, costretto a difendersi mentre una parte del suo stesso universo prepara un futuro che non coincide con quello della segreteria. La destra può agitare i complotti che preferisce, ma la vera faglia della politica italiana passa da qui: dalla solitudine strategica di Elly Schlein, e dai movimenti che oggi provano a riscrivere la geografia dell’opposizione senza aspettare il prossimo congresso.