La Corte di Cassazione ha fermato il meccanismo che il governo aveva introdotto per blindare i trasferimenti nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), compresi quelli allestiti in Albania. Con l’ordinanza n. 30297 del 4 settembre, la Prima sezione penale ha rimesso alla Corte costituzionale la norma che consente, dopo una mancata convalida del trattenimento da parte del giudice, che il richiedente asilo già rinchiuso resti comunque nel centro fino a quando non arriva la decisione su un nuovo decreto del questore. Per la Cassazione è un trattenimento “ex lege”, cioè senza titolo valido, in contrasto con l’articolo 13 della Costituzione che tutela la libertà personale.
Il caso riguarda un cittadino senegalese trasferito il 9 maggio nel Cpr di Gjadër, in Albania, struttura al centro dell’intesa tra Roma e Tirana. L’uomo aveva chiesto asilo il 14 giugno, domanda respinta due settimane dopo. Il 4 luglio la Corte d’appello di Roma non aveva convalidato il trattenimento. Il giorno successivo, però, il questore di Bari aveva firmato un nuovo decreto di trattenimento per “pericolosità sociale” e disposto il trasferimento nel Cpr di Bari-Palese, misura poi convalidata dalla Corte barese. La difesa ha contestato la legittimità della permanenza “forzata” nel centro albanese nelle ore tra la non convalida e il nuovo provvedimento.
La norma delle 48 ore
Il punto contestato è l’articolo 6, comma 2-bis, del decreto legislativo 142/2015, introdotto dal decreto legge 37 di quest’anno. Stabilisce che, quando un trattenimento non viene convalidato, il richiedente non sia liberato subito se il questore emette entro 48 ore un nuovo decreto. In quel lasso di tempo la persona rimane nel centro, anche senza un titolo già convalidato dal giudice.
La Cassazione ha sottolineato che questa disciplina genera una compressione automatica della libertà personale, senza provvedimento individuale valido, solo perché la persona si trova già in un Cpr. Un cittadino straniero in libertà non subirebbe la stessa sorte: di fronte a un nuovo decreto del questore, attenderebbe la convalida del giudice da libero. È qui che la Suprema Corte ravvisa una disparità di trattamento e un contrasto con l’articolo 3 della Costituzione.
Il rinvio alla Consulta chiama in causa anche il rispetto degli obblighi internazionali: l’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti umani, l’articolo 9 del Patto Onu sui diritti civili e politici e l’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tutti fissano un principio chiaro: la privazione della libertà dev’essere sempre sorretta da un provvedimento legittimo e immediatamente controllabile da un giudice.
Il modello Albania alla prova
La questione giuridica si inserisce in un contesto politico delicato. L’accordo con l’Albania, firmato nel 2023 e operativo dal 2024, è stato presentato dal governo Meloni come un “modello” capace di alleggerire la pressione migratoria e accelerare i rimpatri. Le strutture di Gjadër, però, hanno funzionato a singhiozzo: su 144 posti disponibili per i trattenimenti e altri 880 per le procedure accelerate, le presenze effettive sono rimaste basse, mentre le organizzazioni indipendenti hanno segnalato costi elevati e difficoltà nell’accesso alla difesa e ai servizi sanitari.
È in questo quadro che il legislatore ha inserito la clausola delle 48 ore, per evitare liberazioni immediate dopo le non convalide. Ma se la Consulta dovesse dichiararla incostituzionale, ogni rigetto da parte di un giudice comporterebbe la liberazione immediata dello straniero. Sarebbe un colpo al cuore del modello Albania e, più in generale, alla logica dei Cpr come strumento di gestione dei flussi migratori.
Non è la prima volta che i centri finiscono davanti alla Corte costituzionale. Nel 2025 la sentenza n. 39 ha già richiamato la necessità di rafforzare le garanzie difensive nei procedimenti di trattenimento. Ora la domanda è più radicale: può una legge consentire che la privazione della libertà prosegua anche dopo che un giudice l’ha appena dichiarata illegittima? La risposta arriverà nei prossimi mesi e avrà conseguenze non solo per le persone rinchiuse a Gjadër, ma per tutto il sistema dei Cpr in Italia.