Quando si parla di cucina italiana, spesso viene in mente una tavola imbandita, profumi che si propagano, mani che impastano e tanta convivialità. Ma oggi quell’immagine che ci contraddistingue in tutto il mondo si arricchisce di un nuovo e importante significato: la cucina italiana non è più solo arte del gusto, ma una proposta di patrimonio culturale. Il governo italiano ha infatti promosso la candidatura della «Cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale» al fine di farla entrare nella lista del patrimonio immateriale dell’UNESCO.
Ma cosa significa, concretamente? Come si è arrivati fin qui? E quali ricette-emblema raccontano meglio questa candidatura?
Un’identità che va oltre la ricetta
Contrariamente a quanto si possa pensare, non si tratta semplicemente di inserire “la pasta al pomodoro” o la “carbonara” in un inventario di piatti astratto. La candidatura, infatti, punta a rendere onore a un insieme di pratiche, gestualità e rituali che caratterizzano il modo italiano di stare a tavola, di preparare il pasto e di condividere il gesto del mangiare con altri commensali.
Come spiega lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari: «Preparare il pasto, condividere, parlare di quel che si mangia è un’abitudine e contemporaneamente un modo per prendersi cura». Dunque: la cucina italiana “fa cultura”, non solo cucina.
Quali sono le tappe principali della candidatura?
La candidatura della cucina italiana come patrimonio immateriale dell’UNESCO segue un iter ben codificato e piuttosto lungo. Insomma non si tratta di qualcosa di estemporaneo, ma di un processo lungo e suddiviso in diverse tappe. Ecco quali sono:
- Nel marzo 2023 l’Italia ha annunciato ufficialmente la candidatura della cucina italiana all’UNESCO
- Pochi mesi dopo, a giugno 2023, è stato depositato il dossier per la candidatura presso l’Università di Parma, che ha svolto un ruolo guida
- A luglio 2025, la confederazione delle imprese artigiane ha confermato di sostenere la candidatura in vista del voto definitivo previsto a dicembre 2025
Capire queste tappe serve a dimostrare che non si tratta di un’idea estemporanea, ma di un progetto articolato e strategico per l’intero Paese.
La cucina italiana come patrimonio immateriale dell’UNESCO, quali effetti produrrebbe?
Se la candidatura fosse approvata, ecco alcuni cambiamenti possibili che finirebbero per produrre effetti reali e concreti:
- Una maggiore visibilità internazionale per la cucina italiana, non più vista come un semplice brand per promuovere il turismo gastronomico, che verrebbe elettta al rango di elemento della cultura italiana e mondiale
- Il potenziamento delle filiere locali, la tutela dei prodotti tipici e valorizzazione delle pratiche tradizionali grazie alla collaborazione tra ristoranti, agricoltura, artigiani
- Un forte impatto sull’educazione alimentare: riconoscere la cucina italiana come patrimonio significa anche promuovere la qualità, la sostenibilità e la condivisione del pasto
- I benefici di un turismo tematico e rafforzato con regioni, città e territori che potrebbero sfruttare questo riconoscimento per attrarre visitatori interessati non solo a mangiare, ma a “vivere” la cucina come cultura.
Sei ricette-simbolo della cucina italiana da assaporare
Ecco sei piatti che, per storia, diffusione o identità territoriale, possono diventare “mini-ambasciatori” della candidatura. Raccontiamoli con brevi note.
- Pasta alla carbonara (Lazio): semplicissima nell’ingrediente, ma ricca di storia: uova, guanciale, pecorino. È rito conviviale e rapidità in cucina.
- Risotto alla milanese (Lombardia): lo zafferano dona colore e identità al piatto che unisce tradizione contadina e città.
- Parmigiano Reggiano & Prosciutto di Parma (Emilia-Romagna): due prodotti-emblema del territorio, tutelati, esportati, raccontano filiera e lentezza.
- Pizza napoletana (Campania): già riconosciuta dall’UNESCO per “l’arte del pizzaiuolo napoletano” ma funziona anche nel contesto generale: simbolo globale di cucina italiana.
- Cucina sarda e agricolture di Sardegna (esempio pane carasau): un territorio più isolato, che porta tradizione e diversità nel mosaico italiano.
- Bagna càuda (Piemonte): forte legame con rito conviviale, stagionalità e convivialità.
Queste ricette non sono che la punta dell’iceberg e, vista la loro forte riconoscibilità, funzionano come “spot” culturali capaci di raccontare come la cucina italiana non è un prodotto finito, bensì un processo sociale, territoriale e identitario da preservare.
Perché questo riconoscimento è tanto importante?
Tanti si chiedono perché questo riconoscimento è tanto importante. Ebbene la risposta è che nel mondo contemporaneo, dove globalizzazione e standardizzazione sono la norma, valorizzare la diversità culturale significa anche affermare che il cibo è memoria, territorio e relazione sociale. E l’Italia lo sa bene visto che la propria cucina è apprezzata nel mondo e fonda su solide basi: le ricette passano di mamma in figlia o figlio, di nonna in nipote. Per non parlare dei pranzi della domenica che sono un rito familiare.
Inoltre, questo fonemeno prettamente italiano non si riduce a mera estetica ma ha ripercussioni importanti sulla vita di tutti i giorni in quanto tocca l’economia, l’agricoltura, il turismo, l’ambiente e il senso di comunità.
Quali sono le sfide restanti?
Occorre tenere a mente che nessun riconoscimento è automatico perché esiste un preciso e ben codificato iter. Ecco alcuni punti chiave da tenere a mente:
- La difficoltà di definire la “cucina italiana” come oggetto unico: troppe diversità locali, culture regionali, modalità diverse. Alcuni esperti sollevano dubbi sulla coesione di tali pratiche a livello nazionale
- Non basta la ricetta: serve documentare che la pratica è trasmessa, condivisa, parte della vita quotidiana.
- Il riconoscimento non elimina le questioni di sostenibilità o spreco alimentare, ma può dare loro visibilità più ampia.