Difficile dimenticare tanti errori. Il rigore è stato un flop. E ora si corre ai ripari. Ma attenzione a non farsi illusioni perché i falchi dell’austerity non si rassegneranno

Il responsabile economico della Lega, Claudio Borghi, ha ragione da vendere quando denuncia che la Banca centrale europea ha sbagliato grosso nell’interrompere a dicembre scorso uno dei principali stimoli monetari, cioè l’acquisto di titoli di debito pubblico e privato. L’equivalente americano dell’Eurotower, cioè la Federal Reserve, ha utilizzato questo tipo di strumento (il quantitative easing) per anni, superando anche così il disastro finanziario della Lehman Brothers, all’epoca una delle più grandi banche del mondo. Fosse stato per l’Europa dominata dall’asse franco-tedesco, immobilizzata dalle politiche di austerity della Commissione di Juncker e dei tecnocrati, l’euro sarebbe potuto saltare, e con esso l’Unione europea.

Ci pensò Mario Draghi a utilizzare finalmente quello che lui stesso definì il bazooka, cioè la potenza di fuoco della Bce, portando ai minimi storici i tassi e in estrema sintesi stampando moneta, fino a riversare 80 miliardi di euro al mese sul sistema finanziario. L’effetto fu evidente: lo spread dei Paesi più indebitati, come l’Italia, scese drasticamente, le banche ripresero a fare credito a famiglie e imprese, e il Pil di tutta l’Eurozona tornò a crescere. Un percorso che però si è interrotto senza motivo, anzi contro molti buoni motivi, a cominciare dalla debolezza dei consumi e della produzione industriale, dal serio rischio di deflazione e dagli scenari geo-economici inquietanti per effetto della Brexit e della guerra dei dazi tra Usa e Cina.

Solo quando la recessione è arrivata a minacciare persino la Germania ecco che si è ricominciato a pensare al soccorso della leva monetaria, anche se fino a ieri pomeriggio non era chiaro quanto Draghi volesse spingere sull’acceleratore, considerando che il primo novembre lascerà l’incarico alla subentrante Christine Lagarde. Un rebus sciolto da una buona notizia e insieme da un segnale tanto preoccupante quanto importante. Il nuovo taglio dei tassi, ma soprattutto la riattivazione del quantitative easing per 20 miliardi al mese, hanno dato una boccata d’ossigeno ai mercati, euforici per la decisione di lasciare l’acquisto di titoli della Bce senza scadenza.

GIÙ LO SPREAD. Per la prima volta da maggio del 2018 lo spread italiano è tornato sotto i 140 punti base e il rendimento dei nostri Btp decennali ha aggiornato i minimi storci a 0,75% (e benefici sono rilevati anche per il debito pubblico francese e persino tedesco). L’azione della Banca di Francoforte non era d’altra parte scontata, e il consenso degli operatori finanziari era per un rinvio di questi stimoli, in attesa del cambio di testimone con la Lagarde. Qui però sta il segnale preoccupante e importante di cui si diceva prima. Se Draghi ha ritenuto di non poter perdere tempo significa che i dati sull’economia europea in suo possesso sono tutt’altro che rassicuranti.

La produzione industriale in calo dovunque lascia intravedere un brutto orizzonte e senza doping monetario la situazione non potrebbe che peggiorare. Ora è chiaro che non siamo all’epoca della Grecia sull’orlo del default o ai titoli del debito pubblico italiano comprati (a buon mercato) solo dai giocatori d’azzardo, ma l’azione della Banca centrale è un nuovo importante segnale del corso molto diverso dal passato che sta prendendo l’Europa. Le politiche economiche espansive annunciate dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, con il commissario agli Affari economici dato all’Italia (e già basterebbe questo per capire dove si va a parare in termini di flessibilità sui vincoli di bilancio imposti dall’Ue), vanno a dama con la generosità dell’Eurotower.

Una rondine, si dice, non fa primavera. Ma quando le rondini arrivano a stormi in genere il rigore dell’inverno è alle spalle. Dunque c’è più di qualche ragionevole motivo per dare fiducia al nuovo corso promesso dall’Europa. Nessuno si illuda che questo voglia dire regali e aperture di credito illimitato. I Governi che si sono sempre fatti gli affari loro tenteranno di continuare sulla stessa strada. La flessibilità sul deficit delle manovre finanziarie sarà sempre sotto stretto controllo, ma a differenza di prima dovrebbe esserci più interlocuzione e condivisione dei problemi, dalla bassa crescita fino all’immigrazione.

LE ÉLITE HANNO CAPITO. A garanzia di questo cambio di pagina ci sono la paura presa dal cosiddetto establishmente per l’avanzata delle destre e dei partiti euroscettici, l’esigenza congiunturale di risorse anche per i Paesi tradizionalmente più ricchi (Berlino sta pensando a un imponente piano di investimenti pubblici per sostenere la sua economia in ginocchio) ma anche la presa di coscienza degli Stati marginalizzati (da quelli mediterranei all’Est europeo) su quello che possono pretendere. Un fastidio che le élite politiche e finanziarie devono sopportare, un po’ per gli attuali interessi economici convergenti, ma ancor di più per non perdere l’unica assicurazione di cui dispongono di fronte alla guerra dei mondi in corso tra Washington e Pechino: un Europa che resti unita e solo così riesca a non farsi stritolare.