Due morti in dodici ore a San Vittore: il carcere che muore di carcere

Due detenuti morti in dodici ore a San Vittore, nel carcere più affollato d’Italia: la fotografia di un sistema che crolla.

Due morti in dodici ore a San Vittore: il carcere che muore di carcere

Due detenuti morti in dodici ore. A San Vittore, dove ogni metro quadro è una resa quotidiana, il carcere ha inghiottito altri due uomini. Il primo, un cinquantunenne marocchino, è deceduto al Policlinico di Milano dopo un forte malore. Il secondo, peruviano, è crollato in cella all’alba di ieri, intorno alle 7.30: sospetta emorragia gastrica, tentativi di rianimazione inutili. Entrambi erano rinchiusi in reparti diversi. Le autopsie chiariranno le cause, ma la cronaca si somma a una statistica che non sorprende più nessuno.

Nei giorni precedenti altri due detenuti si erano sentiti male. Per prudenza la direzione ha limitato l’accesso degli operatori esterni. Una misura che racconta la paura di una contaminazione, ma anche la fragilità di una struttura in cui il malessere, fisico o mentale, è la regola.

San Vittore, un carcere col 220 per cento di affollamento

Secondo il rapporto Senza Respiro di Antigone (aprile 2025), San Vittore è il carcere più affollato d’Italia: 220 detenuti ogni 100 posti. In Lombardia, i dati del Dap registrano 8.992 presenze a fronte di 6.148 posti regolamentari. Significa brande accostate, ore d’aria ridotte, celle senza privacy né assistenza. La sanità penitenziaria regionale è in ginocchio: mancano psichiatri, infermieri, medici, persino farmaci di base.

Il 29 per cento dei detenuti in Italia è tossicodipendente. In alcune aree del Nord, la quota sale al 40 per cento. Un sistema che non cura ma sedativa, dove l’abuso di metadone, benzodiazepine e psicofarmaci è prassi quotidiana. Nel 2024 i suicidi in carcere sono stati 83, i morti complessivi 246. Nel 2025, a metà agosto, erano già 55 i suicidi e più di 100 le morti totali. Una persona ristretta si toglie la vita 25 volte più facilmente di chi è fuori.

Promesse, ritardi, ipocrisie

Il governo ha promesso 10.676 nuovi posti entro il 2027. Ma l’appalto per i moduli prefabbricati, presentato come “soluzione immediata”, è stato revocato: costi saliti da 32 a 45 milioni di euro, tempi dilatati, zero nuovi spazi. Nel frattempo i posti realmente disponibili diminuiscono per inagibilità e carenze di personale.

Il decreto “Carcere sicuro” del 2024 ha introdotto piccole modifiche – telefonate più lunghe, qualche passo verso la digitalizzazione – ma nessuna misura deflattiva. Anzi, i nuovi decreti sicurezza e il reato di rivolta penitenziaria hanno reso più difficile alleggerire le celle. La promessa di “umanizzare la pena” è rimasta un titolo da conferenza stampa.

Intanto la Polizia penitenziaria lavora sotto organico: mancano fino a ventimila agenti rispetto alla pianta teorica. I turni si allungano, il rischio aumenta, il burnout è una condizione costante. Negli ospedali, invece, le guardie giurate presidiano i detenuti malati perché il personale sanitario penitenziario non basta.

Un sistema che produce morte

San Vittore è un termometro. Le morti di queste ore non sono un incidente, ma la temperatura di un sistema che implode. Il carcere non è più un luogo di espiazione: è diventato un deposito sociale per poveri, malati, tossicodipendenti e migranti. Più della metà dei detenuti italiani è di origine straniera.

Il sovraffollamento, le dipendenze, l’assenza di cure, l’abbandono amministrativo: tutto converge verso lo stesso esito, la morte. Una morte lenta, silenziosa, che passa inosservata finché un corpo non cade in una cella. Poi si parla di “autopsia”, “accertamenti”, “cause da chiarire”. Ma le cause, in realtà, sono già chiarissime.

Le morti di San Vittore non sono due casi isolati: sono la sintesi di un fallimento istituzionale e politico. Un Paese che non riesce a garantire la vita a chi ha perso la libertà si è già condannato da solo.