A Gaza la tregua ha la forma di un lager circondato da blocchi di cemento alti tre metri, come confermato dall’esercito israeliano. L’Onu ha avuto il pudore di dire che questa “pace” non regge, mentre la politica occidentale e i quotidiani italiani continuano a sventolarla come un successo diplomatico. Ma in questo recinto si continua a morire: nelle ultime 24 ore, secondo il ministero della Sanità di Gaza, sono stati uccisi altri 45 palestinesi, tra cui il giornalista Ahmad Asaad Abu Mutair, colpito mentre faceva il suo lavoro. A Gaza l’umanità è talmente capovolta che si muore anche in tempo di pace. I valichi che la propaganda annuncia “riaperti” rimangono un imbuto controllato dagli stessi militari che decidono chi può respirare. Nove Paesi europei hanno chiesto che davvero si apra un passaggio sicuro, ma Netanyahu festeggia con Trump e Kushner, mentre Meloni applaude felice a un modello di pace che incatena perfino i medici. Medici Senza Frontiere chiede il rilascio immediato del chirurgo Khaled Obeid, detenuto da Israele. In questo tempo sospeso, perfino chi dovrebbe curare è ostaggio di una tregua bavosa, costruita per compiacere i vincitori del racconto. Intanto una supporter statunitense, avvolta nei colori di Trump, si gode i popcorn aspettando le bombe su Gaza come fosse una serie tv. E Paolo Mieli ripete ossessivo che lo slogan «dal fiume al mare» siaun inno alla distruzione: peccato che la stessa piattaforma del Likud rivendichi che solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione “tra il fiume e il mare”. La verità è che qui si gioca a rovesciare le parole per salvare i colpevoli. Non c’è niente di più pericoloso di una guerra che chiamano pace. Per questo dobbiamo tenere gli occhi su Gaza.
La Sveglia