Il futuro dell’ex Ilva si gioca su un tavolo zoppo, mentre i pezzi dello stabilimento più grande d’Europa iniziano a essere spartiti tra chi può permetterselo e chi sa aspettare. Sfumata la pista azera – archiviata con toni amichevoli ma inequivocabili dal presidente Ilham Aliyev – resta in piedi una sola proposta industriale: quella del gruppo indiano Jindal Steel. Ma a Taranto, dove ogni promessa è già stata disattesa almeno una volta, le parole non bastano più.
Jindal, il piano verde che odora di esuberi
Jindal propone un investimento complessivo da 4 miliardi: 1 per acquisire gli asset, 3 per riconvertirli. La strategia si regge su un’operazione di decarbonizzazione radicale, con la chiusura progressiva degli altoforni, l’installazione di due forni elettrici e la produzione di acciaio “green” tramite un impianto Dri. L’obiettivo dichiarato è arrivare a 6 milioni di tonnellate annue entro il 2030. Un piano ambizioso, che piace a chi osserva da lontano. Molto meno a chi lavora a Taranto.
I sindacati denunciano l’assenza di tutele occupazionali concrete. I numeri parlano di almeno 4.000 esuberi e di una riconversione industriale che parte dalla chiusura delle cokerie, senza che siano ancora state costruite le alternative. “Una chiusura mascherata”, avverte la Uilm, ricordando il precedente di Piombino: anche lì fu promesso un rilancio, mai realizzato.
Il governo ha scelto la via dell’amministrazione straordinaria dopo la rottura con ArcelorMittal, evitando la nazionalizzazione diretta. Ma il risultato è stato un crollo verticale della produzione e un aumento delle perdite. L’impianto è in dissesto finanziario conclamato, con oltre 5 miliardi di passività e una produzione annua sotto i 3 milioni di tonnellate. Lo Stato ha stanziato 200 milioni: una pezza per una voragine.
A Taranto si continua a morire. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità parlano chiaro: incidenza tumorale tripla rispetto alla media nazionale, picchi di mesotelioma e tumori infantili, una presenza stimata di 4.000 tonnellate di amianto ancora da smaltire. Ogni ritardo nella transizione è una condanna che si rinnova ogni giorno.
Lo spezzatino che piace al governo
Nonostante l’unicità dell’offerta indiana, dentro il governo si fa largo l’ipotesi di riaprire il bando a settembre. Il rischio, in questo scenario, è già noto: la vendita a spezzatino. Diversi soggetti hanno espresso interesse per singoli pezzi dell’impianto – banchine, laminatoi, impianti secondari – senza alcuna visione integrata. Il polo siderurgico rischia di frantumarsi in attività scollegate, inadatte a reggere il peso di una transizione complessa.
Intanto, la maggioranza di governo mostra tutte le sue crepe. L’emendamento che dirottava 150 milioni dalle bonifiche alla decarbonizzazione è stato bocciato a causa delle spaccature tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. La regione, il sindaco, la magistratura ambientale e la cittadinanza continuano a essere esclusi dalle decisioni strategiche. In questo vortice di accuse incrociate, i comitati locali minacciano ricorsi legali mentre si istituzionalizza la frattura tra centro e periferia.
L’offerta Jindal, oggi unica sul tavolo, viene presentata come l’ultima ancora di salvezza. Ma per Taranto accettare per disperazione significa accettare l’ennesima subordinazione. Senza un ruolo forte dello Stato nella governance futura, senza garanzie scritte su lavoro e ambiente, senza un cronoprogramma certo, la transizione ecologica rischia di diventare l’alibi perfetto per dismettere.
Taranto ha già dato. In lavoro, in salute, in fiducia. Quello che resta non si può svendere, né diluire. Perché se c’è un prezzo più alto del fallimento industriale, è quello del cinismo politico. E stavolta, nessuno potrà dire di non sapere.