Figli e figliastri delle riforme

Di Antonello Di Lella

Alla fine il salvagente per le sedi staccate dei tribunali amministrativi è arrivato. Le pressioni delle toghe sul governo hanno prodotto gli effetti sperati. Quindi di tagli ai Tar nemmeno a parlarne, neanche questa volta. Restano in piedi per la felicità dei giudici. E degli amministratori locali che sul taglio dei tribunali amministrativi hanno innescato una guerra territoriale. Salvate dunque le sedi di Brescia, Catania, Lecce, Reggio Calabria e Salerno. Destinati a sparire, invece, i Tar di Latina, Parma e Pescara. Per loro la chiusura è stata spostata dal primo ottobre di quest’anno al primo luglio del 2015. Ma fino a quella data la battaglia delle toghe e dei politici locali è garantita. Quindi chissà se riusciranno ad evitare la chiusura dei battenti per le tre sedi.

Ancora di salvataggio
Il salvataggio, quasi in extremis, è arrivato nella tardissima serata di martedì con un emendamento approvato in I commissione Affari costituzionali della Camera. Il percorso del decreto legge di riforma della pubblica amministrazione non è ancora al suo atto conclusivo, anzi l’approdo in Aula è slittato per la terza volta ed è previsto soltanto per lunedì, ma il nuovo disegno sulla giustizia amministrativa dovrebbe aver trovato, ormai, la sua versione definitiva. Anche perché si tratterebbe della rivisitazione effettuata direttamente dal governo. E modifiche, con ogni probabilità, non dovrebbero essere possibili, dal momento che il voto di fiducia appare quasi scontato. La tabella di marcia fa segnare già un ampio ritardo. Attendere ancora non è più possibile.

La modifica
Nel testo modificato e approvato in Commissione si legge che a saltare dal primo luglio del prossimo anno sono “le sezioni staccate di tribunale amministrativo regionale aventi sede in comuni che non sono sedi di corte d’appello”. Mentre entro il 31 marzo 2015 dovranno essere fissate le modalità per il trasferimento del contenzioso pendente nelle sezioni soppresse, oltre alle risorse umane e finanziarie; così dal 1 luglio 2015 i ricorsi saranno depositati nelle sedi centrali dei tribunali amministrativi. Quindi da Latina a Roma, da Pescara all’Aquila e da Parma a Bologna.

L’asse Catania-Lecce
Sul taglio delle sedi staccate sono Lecce e Catania le due città in cui la protesta era montata più che altrove. E simili sono le argomentazioni portate avanti sia dalla Puglia che dalla Sicilia. I due tribunali amministrativi regionali per evitare la tagliola hanno presentato le cifre. Con il Tar di Catania terzo in Italia per numero di pratiche smaltite, oltre a servire tre province, e quello di Lecce con un numero altrettanto cospicuo. Ma c’è pure la distanza. Infatti sia la città salentina che quella etnea lamentavano un surplus di costi dovuto alla distanza eccessiva dai rispetti capoluoghi di regione e sede principale dei Tar, rispettivamente Bari e Palermo. E su questa base è nata anche un’asse tra il sindaco di Lecce, Paolo Perrone, e quello di Catania, Enzo Bianco. Premiata ora dall’emendamento del governo. Così dichiarazioni entusiastiche sono giunte nella giornata di ieri dalla Lombardia alla Sicilia. Passando per la Calabria: “Questa volta il salmo è finito in gloria”, afferma il presidente della Commissione di Vigilanza, Aurelio Chizzoniti, “è stata sventata la programmata soppressione della sezione reggina”.

Il caso Pescara
Ma non tutti esultano. E in Abruzzo è già scoppiata la protesta. Perché sia il neo sindaco di Pescara, Marco Alessandrini, e il nuovo governatore, Luciano D’Alfonso, entrambi del Partito democratico, avevano fornito ampie rassicurazioni sulla mancata soppressione del Tar adriatico. “Una sciagurata decisione del Pd”, commenta il Movimento 5 Stelle locale, “così hanno soppresso il tribunale amministrativo più efficiente d’Italia. Oggi i Tar rappresentano uno dei pochi presidi di legalità dell’azione amministrativa”. E sul taglio di Pescara qualche dubbio è stato sollevato anche da Renato Balduzzi, capogruppo di Scelta Civica, soffermandosi sulla mancanza di criteri a monte della scelta.

CAMERE DI COMMERCIO IL TAGLIO FA MALE ALLE IMPRESE

Di Monica Tagliapietra

Il taglio previsto è di quelli drastici. Ma nella foga di cambiare si rischia facilmente di gettare il bambino con l’acqua sporca. Quello che potrebbe accadere con le Camere di commercio italiane, minacciate di perdere da un anno all’altro il 50% dei diritti fissi versati dalle aziende. Quale azienda potrebbe sopravvivere perdendo in un solo esercizio metà dei proventi? Pochissime. E dunque i quasi 12 mila dipendenti e funzionari del mondo camerale italiano finirebbero presto sulla strada.

I numeri parlano chiaro
I servizi che le Camere offrono alle imprese e al territorio, soprattutto sotto forma di sostegno a iniziative culturali, andrebbero perduti. Quindi alla fine dei conti, far saltare questi enti porterà più o meno benefici all’economia e alle collettività?
La risposta sta nei numeri: su un miliardo di euro di risorse annue, 800 milioni arrivano sotto forma di contributi delle imprese italiane. Senza i 400 milioni che verrebbero tagliati dalla riforma della Pubblica amministrazione, mancherebbe il bugdet per il funzionamento delle Camere di Commercio. Il 46% dei ricavi serve, infatti, a pagare stipendi e a gestire gli uffici: per la Pubblica amministrazione nazionale il dato, invece, sale al 70%. Tutti soldi risparmiati, si potrebbe pensare. In realtà invece la scomparsa delle Camere di Commercio rischia di pesare drammaticamente sulle piccole e medie imprese che solo nel 2012 hanno ricevuto, in forma diretta o indiretta, 515 milioni di euro. Un fiume di soldi impiegato per favorire l’internazionalizzazione, la presenza a fiere e ad accedere al credito attraverso il sistema dei Confidi, che garantiscono 80 milioni di euro l’anno. Insomma per le Pmi c’è il rischio beffa: in cambio di un risparmio di 100 euro l’anno (i diritti fissi fino a 100 mila euro di fatturato ammontano a 200 euro, poi sono progressivi in base ai ricavi), potrebbero non avere più quelle garanzie economiche necessarie ad accedere a fondi nazionali ed internazionali.

Le barricate
Tutto il mondo delle imprese, e non solo gli addetti delle Camere di Commercio, sta alzando perciò le barricate. Manifestazioni, convegni, iniziative per spiegare i benfici di un sistema che in passato evidentemente non ha investito abbastanza per spiegare il suo ruolo, i vantaggi che ha portato e può ancora portare a tutta l’economia del Paese. E nella giornata di ieri il premier Matteo Renzi ha aperto a qualche modifica sulla riforma e dicendosi pronto a trovare un accordo con le Camere di commercio.

I dubbi della Camera
Chi invece ha colto questi benefici è il Servizio bilancio della Camera, nel dossier che ha accompagnato il decreto sulla Pubblica amministrazione. Per i tecnici, il taglio dei 400 milioni di diritti camerali “non comporta effetti negativi per la finanza pubblica”, ma solo perché le minori entrate possono essere compensate riducendo le spese relative ai servizi e agli iniziative che venivano finanziate con i fondi versati dalle imprese registrate. Al contrario, far affondare le Camere di commercio metterebbe subito sulla strada 2.500 lavoratori, con un aggravio sulle casse dello Stato per 167 milioni di euro l’anno: 89 per il personale in esubero, 56 per i minori versamenti e 22 per gli oneri previdenziali che oggi sono a carico del sistema camerale siciliano. Con un effetto recessivo – calcolato dalla Cgia di Mestre – di circa 2,5 miliardi. Le Camere, da parte loro, hanno dato segni di disponibilità a tagliare i costi. Tra i casi più concreti c’è quello del Lazio, dove le 5 enti camerali (uno per Provincia, si sono ridotti a due: Roma e quello dell’area vasta che ha unificato Rieti, Latina, Viterbo e Frosinone. Con un bel taglio dei costi.