Global Sumud Flotilla, giorno 15. Edificio dopo edificio, Gaza sta svanendo. Ad aprile l’Onu stimava che il 92% delle abitazioni fosse stato distrutto o danneggiato. Oggi la percentuale è ancora più alta.
Trenta minuti. Questo è il tempo concesso per lasciare la casa in cui hai vissuto tutta la vita. Trenta minuti per raccogliere ciò che puoi, per fuggire e sperare di non morire. Trenta minuti per voltarti un’ultima volta verso il luogo che custodiva i tuoi ricordi.
L’esercito israeliano continua a spingersi oltre ogni limite di crudeltà, forte del silenzio complice che accompagna decenni di occupazione, pulizia etnica e – negli ultimi due anni – genocidio. A Gaza non esiste un posto sicuro. Eppure la popolazione resiste: rimane nella propria città, difende ciò che resta, rifiuta di arrendersi.
Le agenzie raccontano l’ennesima notte di sangue: almeno 25 palestinesi uccisi dall’alba, tra loro bambini di sei anni. L’Unrwa denuncia dieci dei propri edifici bombardati in quattro giorni. Israele rivendica l’evacuazione forzata di oltre 320 mila persone da Gaza City. Nelle chiese, i canti vengono interrotti dal fragore delle esplosioni. Dall’esterno giungono solo vertici e dichiarazioni, mentre dentro la Striscia si consuma l’irreparabile. Perfino il presidente Mattarella riferisce di “disumana, ostinata condizione di Gaza” parlando di “un peso di inciviltà insostenibile per la comunità internazionale”.
Il tempo per fermare tutto questo è adesso. E in mare le vele della Global Sumud Flotilla sono cinquanta imbarcazioni che si muovono verso un punto d’incontro, per mirare a Gaza insieme. Una rotta collettiva per dire no, non in nostro nome.