Le piazze italiane ieri hanno parlato con numeri che non si possono cancellare: centinaia di migliaia di persone, 50mila solo a Roma, 15mila a Napoli, migliaia a Torino, Firenze, Genova, Cagliari, Bari. Dai porti alle scuole, dalle fabbriche alle università, lo sciopero generale ha bloccato pezzi interi del Paese. Non è stata una sommatoria di cortei, è stato un unico corpo che si è alzato in piedi contro il genocidio a Gaza.
Ogni bandiera palestinese appesa ai balconi, ogni presidio nelle piazze, ogni linea di produzione ferma, ogni aula occupata è stato un messaggio diretto al governo: le vostre scelte di fiancheggiamento, la complicità con la guerra, non sono la voce dell’Italia. L’Italia rifiuta lo sterminio del popolo palestinese, condanna la vendita di armi a Israele e respinge la solidarietà offerta a soldati che hanno massacrato bambini e civili. Ogni contratto di fornitura firmato in queste settimane è una ferita alla memoria di chi ha combattuto per la libertà.
Questo movimento per la pace è l’Italia che si riconosce nell’umanità e urla: «Non in nostro nome». È la promessa di una sopravvivenza collettiva che non è semplice memoria, ma scelta quotidiana di vita.
E mentre le piazze gridavano, i politici di governo balbettavano accuse di “violenza”, fingendo di non vedere la loro. Parlano di ordine pubblico quelli che pagano bombe, fiancheggiano un genocidio, ammazzano di fame e di ordigni donne e bambini. Sono gli stessi che stringono le mani insanguinate di Netanyahu. Sono gli stessi che ieri, davanti a mezzo milione di persone, hanno provato a indossare i panni delle maestrine del decoro. La vergogna è tutta loro.