Gufata a salve. Fitch non abbassa il rating dell’Italia. Bugie sull’economia. Ci facciamo male da soli

L'agenzia di rating Fitch non ha declassato il nostro debito sovrano, assestando quel colpo basso che invece qui in casa nostra molti davano per scontato

I mercati internazionali non leggono la tremebonda stampa italiana, e soprattutto se ne infischiano del racconto preferito da Pd e Forza Italia, secondo cui il Governo gialloverde sta portando il Paese allo sbando. Nonostante un coro di gufi manco fossimo a Sanremo, l’agenzia di rating Fitch non ha declassato il nostro debito sovrano, assestando quel colpo basso che invece qui in casa nostra molti davano per scontato. Basti pensare – per non andare troppo lontano – che ieri mattina Il Sole24Ore.it apriva con le previsioni catastrofiche dello spread a 370 punti.

Uno scenario proposto dalla società di alcuni analisti inglesi che poche ore dopo Fitch ha sostanzialmente reso molto improbabile, pur senza farci rilassare sugli allori. Ignorare i segnali di una nuova ripartenza della speculazione finanziaria sarebbe un errore, anche perché non sono solo i mercati a volerci spremere quanto più si può. Utilizzando le pressioni sull’economia torna infatti a intravedersi un disegno per ristabilire il primato della tecnocrazia sulla democrazia, mettendo all’angolo il governo legittimato dal consenso popolare per aprire la strada a un nuovo Esecutivo amico dalla Troika, sullo stile di quanto abbiamo già visto con Monti e la Fornero.

Fantapolitica, obietterà qualcuno, visto che nessuna maggioranza politica in Europa ha il consenso dei gialloverdi in Italia, ma se si scatenasse la tempesta perfetta sui mercati nemmeno Di Maio e Salvini avrebbero vita semplice, nonostante milioni di elettori. Il problema, d’altra parte, sta proprio qui, negli elettori, di cui come sempre ci si ricorda giusto all’avvicinarsi delle urne, in questo caso quelle per l’europarlamento. Qui l’avanzata delle forze populiste e sovraniste è ormai l’incubo delle tradizionali famiglie politiche europee, che sentono sfuggire il loro predominio nei singoli Stati e sull’Unione europea. E terrorizzati sono i due leader politici più deboli, la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Macron.

La prima sta in sella grazie a una coalizione attaccata con lo sputo, mentre il secondo è al minimo storico di popolarità, assediato dalla destra della Le Pen e dai gilet gialli. Per questo, per sostenersi a vicenda, Berlino e Parigi hanno rinnovato poche settimane fa i loro accordi economici bilaterali, di fatto rendendo plastico il dominio dell’asse franco-tedesco sui partner dell’Ue. Un pessimo segnale per l’intero disegno di una comunità leale e solidale, e che può sfociare in evoluzioni estreme, finanche il riconoscimento di un’Europa a due velocità e il conseguente sdoppiamento dell’euro. A dimostrazione di questa frattura tra tedeschi, francesi e i loro Paesi vassalli contro il resto dell’Unione ieri abbiamo assistito a una indecente forzatura, con la riproposizione di una decisione appena bocciata dal Parlamento di Strasburgo, fatta su misura per togliere i fondi Ue all’Italia e ai governi che non rispettano le politiche dell’austerity.

La motivazione ufficiale è che da troppo tempo si deroga agli obblighi di bilancio, ma se questo avviene sarebbe bene farsi una domanda su cosa non funziona nel complesso dell’economia europea. Se l’Italia sta collezionando una serie di dati preoccupanti dal Pil alla produzione industriale, i nostri partner non se la passano meglio, e con tutta probabilità la stessa Germania il mese prossimo finirà in recessione. Abbiamo il certificato, quindi, del fallimento delle politiche imposte dalla Commissione di Juncker, dal Consiglio d’Europa e – nella sua supposta autonomia – dalla Banca centrale di Francoforte. Istituzioni tutte piuttosto allergiche ai cambiamenti di direzione politica, e pertanto arroccate oggi più che mai nelle loro fallimentari trincee.

La Bce ha bloccato troppo presto l’emissione di liquidità monetaria con cui si sono messi in sicurezza debiti sovrani e sistema bancario dopo il default della Lehman Brothers, senza peraltro centrare l’obiettivo sull’inflazione previsto dal suo stesso statuto. Ciò nonostante ancora ieri il presidente Draghi dava lezioni contro i populismi, definendo un male quella che invece può essere la cura all’epidemia scatenata da certi dottori. Finti luminari di un continente condizionato dalle paure, dove la scure dei mercati sull’economia è strumentale più degli immigrati.