C’è voluta una sentenza della Corte costituzionale per ricordare che la previdenza non è una partita contabile, ma una garanzia di dignità. Con la decisione n. 94 del 2025, la Consulta ha riconosciuto il diritto all’integrazione al minimo anche per chi percepisce l’assegno ordinario di invalidità (AOI) calcolato interamente col metodo contributivo. Non si tratta solo di una correzione tecnica, ma di un atto politico – nel senso più profondo del termine – che restituisce equità a migliaia di persone tagliate fuori dalla protezione sociale per un difetto di progettazione normativa.
Fino a ieri, un lavoratore colpito da invalidità che avesse cominciato a versare contributi dopo il 1995 veniva penalizzato due volte: dalla malattia e da un sistema previdenziale che lo abbandonava sotto la soglia della povertà. Il metodo contributivo puro, introdotto dalla riforma Dini, aveva escluso esplicitamente l’integrazione al minimo, ritenendola incompatibile con la logica attuariale. Ma quella norma, pensata per la pensione di vecchiaia, era stata applicata anche all’AOI, senza distinguere tra chi aveva completato una carriera lavorativa e chi era stato costretto a interromperla per cause di forza maggiore.
Un sistema che puniva la fragilità
La Corte ha definito questa esclusione incostituzionale perché in contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione. Ha riconosciuto una “ingiustificata disparità di trattamento” tra lavoratori che si trovano nella stessa condizione di bisogno ma che, a seconda della data d’ingresso nel mondo del lavoro, ricevono trattamenti profondamente diversi. E ha sottolineato come negare l’integrazione significhi punire chi ha versato pochi contributi proprio perché colpito da una grave invalidità.
L’assegno ordinario di invalidità – previsto dalla legge n. 222 del 1984 – richiede almeno cinque anni di contributi, di cui tre negli ultimi cinque anni. È una prestazione di natura previdenziale che riguarda migliaia di persone, spesso giovani o con carriere frammentate. Nel 2024 erano oltre 425.000 i titolari di AOI, di cui una quota crescente calcolata col metodo contributivo. Per molti di loro l’importo mensile restava sotto i 400 euro, inferiore persino all’assegno sociale.
L’intervento della Corte non ha effetti retroattivi – per salvaguardare gli equilibri finanziari – ma apre una breccia importante. Dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, chi riceve un AOI interamente contributivo potrà ottenere l’aumento fino al trattamento minimo, fissato per il 2025 a 603,40 euro al mese, se rispetta i requisiti reddituali (circa 7.000 euro annui per i non coniugati, 21.000 per i coniugati). È un diritto, non un favore. Ed è il frutto di una lunga battaglia legale e sindacale condotta dall’INCA-Cgil, che oggi si prepara ad assistere sul territorio tutte le persone coinvolte.
La giustizia costituzionale che il governo ignora
Ma questa sentenza non basta. Lo dice chiaramente Ezio Cigna, responsabile previdenza della Cgil: “È solo l’inizio”. È urgente estendere il principio anche ad altre prestazioni, come la pensione di inabilità, e soprattutto introdurre una pensione contributiva di garanzia, che impedisca a chi ha lavorato – magari in modo discontinuo, povero o precario – di finire sotto la soglia dell’indigenza.
Secondo le stime, più del 40% dei giovani con carriere frammentate andrà in pensione con trattamenti inferiori all’attuale assegno sociale. La proposta di un assegno integrativo di garanzia – sostenuta da sindacati e forze sociali – prevede l’introduzione di contributi figurativi nei periodi di inattività involontaria e un “pavimento previdenziale” sotto cui non si può scendere.
Sulla carta, l’ordinamento italiano riconosce che “ogni cittadino inabile al lavoro ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Nella pratica, ci sono voluti trent’anni e un intervento della Consulta per correggere una norma che tradiva questo principio. Il governo, intanto, tace: l’ultimo confronto sulle pensioni con i sindacati risale al settembre 2023.
Eppure, se l’obiettivo è evitare una generazione di pensionati poveri, discontinui e invisibili, il dibattito andrebbe aperto subito. Le disuguaglianze non si combattono con i bonus elettorali ma con strutture di welfare che non si dimentichino dei più deboli quando si fa cassa. Questa sentenza lo dice con chiarezza: la sostenibilità non può sacrificare la giustizia.