Il decreto lavoro della Meloni è un’iniezione di sfiducia per i nostri giovani

Il decreto lavoro costituisce per davvero un grosso cambiamento per le condizioni dei lavoratori, ma perché le peggiora drammaticamente.

Il decreto lavoro della Meloni è un’iniezione di sfiducia per i nostri giovani

Che il Consiglio dei Ministri si sia tenuto in occasione del Primo Maggio per decretare in materia di lavoro non mi pare debba essere oggetto di polemica. Basta farsi un giro in occasione della festa del lavoro tra ospedali, commissariati, ristoranti e altri luoghi ancora per capire che parte decisiva dell’ingranaggio della macchina-Paese non può, e non deve, fermarsi nemmeno in quella data dal valore simbolico così alto.

Il decreto lavoro costituisce per davvero un grosso cambiamento per le condizioni dei lavoratori, ma perché le peggiora drammaticamente

Non vedo perché la “casta” debba essere esente da un simile onere, anche perché – se così non fosse stato – la controversia che già stava montando era legata al ponte festivo e vacanziero della premier assieme alla famiglia. Che poi la Meloni e il suo Esecutivo abbiano voluto usare la ricorrenza come cassa di risonanza comunicativa va altrettanto bene: quale governo non vorrebbe dare risalto a delle misure che dichiara cambino le sorti del lavoro in Italia?

Ecco, il punto è questo: il “decreto lavoro” costituisce per davvero un grosso cambiamento per le condizioni dei lavoratori, ma perché le peggiora drammaticamente. E ci vuole un certo “talento politico” per una simile operazione, dato che il lavoro in Italia non solo scarseggia ma vive una drammatica condizione dal punto di vista qualitativo.

Il Decreto Dignità del 2018 (premier Conte) – anticipando inconsapevolmente il virtuoso pacchetto di riforme spagnolo i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti – metteva al centro la lotta al precariato che invece sembra essere l’asse portante delle politiche delle destre. Mentre in un anno abbiamo avuto ben 600.000 contratti in più a tempo indeterminato, con l’attuale decreto abbiamo un uso più flessibile dei contratti a tempo determinato, che sono inconciliabili con un progetto di vita solido, che garantisca una casa e la possibilità di immaginare una famiglia.

Le tanto osannate politiche meloniane per incentivare la natalità poggiano dunque su gambe di argilla. Come si può pensare di avere dei figli a cui garantire un tetto senza una stabilità economica? Che, si badi bene, poggia sì su un lavoro a tempo indeterminato, ma in un Paese in cui sia stato introdotto il salario minimo legale. Quante le buste paga da fame degli italiani che vedono una manciata di euro, quattro o cinque lordi l’ora, per il proprio lavoro?

E se si chiede un prestito “per sopravvivere”, pensate che qualche istituto bancario possa concederlo a simili condizioni? È evidente che servono delle garanzie che non sono fornite dal modello meloniano, che chiamando il Reddito di cittadinanza “metadone di Stato” è finita per illudere il Paese di occuparsi della contrazione del potere d’acquisto con appena cento euro (durata sei mesi) in busta paga.

Certo, anche cento euro possono fare la differenza a fine mese per una famiglia in difficoltà che non riesce a garantirsi beni di prima necessità con l’inflazione che è schizzata alle stelle, ma cosa accadrà dopo? Il modello meloniano è privo di una visione organica e promuove – nemmeno troppo velatamente – il messaggio che la povertà sia una colpa. Se sei occupabile e non lavori è perché o non sei abbastanza bravo, o ti piace troppo il divano. Come la giri giri, è colpa dei poveri, insomma.

 

 

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