Davanti ai tribunali di mezza Italia sfilano i cartelli rossi dell’Fp-Cgil: ieri gli addetti dell’Ufficio per il processo (Upp) hanno incrociato le braccia. Sono dodicimila, assunti a tempo determinato tra il 2022 e il 2024 con fondi europei per centrare gli obiettivi del Pnrr. A loro è stato chiesto di smaltire arretrati, velocizzare la minutazione dei provvedimenti, sistematizzare la ricerca giurisprudenziale, tenere in ordine i flussi informatici e sostenere le cancellerie nelle pratiche quotidiane. Hanno fatto esattamente questo. Ora però c’è una data che incombe: 1° luglio 2026, fine dei finanziamenti europei e rischio di licenziamento per la maggioranza della platea.
La fotografia è lineare. Dove gli Upp sono stati impiegati con continuità, gli indicatori ministeriali registrano meno pendenze e tempi più brevi. Gli uffici hanno cambiato metodo: bozze e ricerche pronte prima dell’udienza, fascicoli digitali aggiornati, calendario dello smaltimento dell’arretrato “storico” con priorità definite. Quella che era nata come stampella temporanea è diventata il perno della macchina. Ed è qui il paradosso: si chiede di scendere proprio a chi l’ha rimessa in moto.
La scadenza e i numeri
Il governo rivendica un primo passo: tremila stabilizzazioni coperte in legge di bilancio e, sulla carta, un impegno politico su altre tremila. Il conto però lascia fuori circa novemila persone. La formula è la solita: «Vedremo nella prossima manovra», con la promessa di un tavolo tecnico. Nel frattempo gli uffici continuano a reggersi su squadre miste in cui i funzionari Upp redigono bozze per giudici e presidenti di sezione, preparano minute, curano la ricerca giurisprudenziale, affiancano le cancellerie nel front-office e nel back-office, gestiscono i flussi digitali e gli adempimenti che sostengono l’udienza.
A chi chiede «perché stabilizzare?», i lavoratori rispondono coi numeri e con la cronaca. Nei distretti più in sofferenza gli arretrati civili e tributari si sono ridotti sensibilmente; nel penale la lavorazione di supporto ha alleggerito le cancellerie, accelerando iscrizioni a ruolo, comunicazioni e depositi. «Siamo entrati dove la macchina si inceppava», raccontano in piazza. A Brescia spiegano che senza di loro «si rompono le squadre costruite in due anni»; ad Arezzo ricordano «migliaia di fascicoli lavorati e invisibilità nei diritti»; a Venezia sintetizzano: «Stesse responsabilità, zero tutele». Le sigle sono compatte sull’obiettivo: stabilizzazione. Cambiano solo i toni sullo strumento, ma non la richiesta.
Che cosa dicono tribunali e magistrati
La magistratura associata non usa giri di parole: «Con questo organico precario non si regge», ribadisce l’Anm, definendo il contributo degli addetti Upp «indispensabile» e chiedendo un percorso strutturale. I capi degli uffici segnalano il rischio operativo immediato: senza quel personale torneranno le code in cancelleria, aumenterà il tempo di stesura dei provvedimenti, si perderà il know-how costruito a caro prezzo. I dirigenti amministrativi confermano che standardizzazione dei flussi, lavorazioni digitali e presidio dei registri hanno beneficiato in modo decisivo del lavoro Upp.
Nel giorno dello sciopero diverse strutture territoriali denunciano perfino minacce di precettazione. Per i sindacati è una conferma indiretta dell’indispensabilità di questi profili: «Se bastassero gli organici di ruolo, nessuno si affannerebbe a richiamarci mentre protestiamo». La Uilpa chiede un tavolo immediato e criteri chiari; la Cisl definisce «insufficiente» il perimetro del piano; la Fp-Cgil parla di scelta politica: «O si finanzia il passaggio a tempo indeterminato o si vanificano gli obiettivi del Pnrr». Intanto le storie personali raccontano il resto: contratti che scadono a ridosso dell’estate 2026, mutui e affitti appesi, competenze costruite e da ricominciare altrove.
La posta in gioco nella manovra
Non è una vertenza corporativa. Senza stabilizzazione, l’effetto boomerang è scritto: l’arretrato può tornare a salire, i tempi rischiano di allungarsi, i target del Pnrr diventano lettera morta proprio sul traguardo. C’è un punto che la politica evita: sostituire dodicimila persone già formate richiede anni, concorsi, tutoraggi, una curva di apprendimento che la giustizia non può più permettersi. La soluzione indicata da Anm e sindacati è chiara: profilo professionale riconosciuto, contratti a tempo indeterminato, risorse certe e calendarizzate, valorizzazione dell’esperienza maturata per evitare contenziosi e discontinuità.
Da Palazzo Chigi filtrano rassicurazioni: «Il percorso è avviato». Vero a metà. Tremila stabilizzazioni non fanno una riforma, e un «impegno» senza coperture non paga le buste paga né tiene in piedi un servizio essenziale. Senza risposte nella legge di bilancio d’autunno o in un decreto in conversione, il 1° luglio 2026 diventa un muro. Per chi compila registri, prepara bozze, aggiorna flussi e banche dati il conto alla rovescia è già iniziato. Ed è un conto che riguarda tutti: una giustizia che torna a rallentare perde credibilità, fiducia, economia.
La domanda finale non è retorica: abbiamo investito per riavviare la macchina, ora intendiamo pagare il pieno per farla andare o vogliamo spegnerla al casello?