In Italia via Mosca o Dubai. Con i voli Emirates e Aeroflot si aggirano tutti i controlli per arginare la diffusione del Coronavirus

Partenza: Pechino. Destinazione: Italia. Tappa intermedia: Abu Dhabi. Controlli: nessuno. “Né ad Abu Dhabi né a Roma. Nessuno si è sognato di chiedermi da dove vieni, nessuno ha raccomandato la quarantena. Nulla di nulla. E già in Cina il Coronavirus era esploso, già c’erano stati morti a Wuhan, già molte compagnie avevano ridotto i voli. E ora ci si chiede perché il Coronavirus è arrivato anche qui?. Il racconto di E.G., impiegata a Pechino e rientrata a Roma il 29 gennaio, è una testimonianza che serve a capire, forse, perché l’Italia sia il terzo paese al mondo per numero di infettati da SARS-CoV-2, con un numero di morti superiore a quello dell’intera città di Pechino.

AUTOISOLAMENTO. A Pechino E.G. abita, appunto, da diversi anni, alle dipendenze di una ditta italiana. Lì si è sposata con un americano, la cui ditta oggi “è chiusa da settimane”, e lì ha avuto due figli, le cui scuole sono state “chiuse a tempo indefinito”. Nel suo ufficio le attività sono ridotte all’indispensabile. E lei, coi figli, ha deciso di rientrare a Roma due giorni prima che scattasse il blocco dei voli diretti dalla Cina. Ha trovato, che fortuna, un volo Etihad, di cui fa parte Alitalia. “Era pieno di cinesi. Famiglie di turisti che non volevano rinunciare alla vacanza già pagata”. Prima nota stonata: per tutto il volo lei e i figli non si sono tolti la mascherina, “ma nessuna delle hostess ne era provvista”.

Seconda nota stridente: ad Abu Dhabi non c’è stato nessun controllo, “nelle file la gente stava appiccicata, qualcuno con la mascherina, moltissimi senza”. A Roma, idem. “Noi ci siamo messi in auto-isolamento”, dice alla Notizia, “ma è stata una scelta personale. Non so quanti dei miei compagni di viaggio l’abbiano fatta. Sicuramente non i turisti”. Et voilà. In Cina gli italiani sono centinaia. Molte aziende, come l’Eni, per sicurezza hanno fatto rientrare i propri manager e le relative famiglie. E così hanno fatto le aziende più piccole, come quella Mae di Fiorenzuola il cui manager è stato erroneamente indicato come il paziente zero che ha infettato il paziente 1 di Codogno. Altri sono rientrati chiedendo in ufficio congedi straordinari o vacanze. Ma in quali condizioni, molto spesso, sono avvenuti i ritorni? E.G. racconta la verità non ufficiale: “Molti amici sono riusciti a imbarcarsi su voli Aeroflot o Emirates, le due uniche linee aeree che effettuano ancora collegamenti, sia pure meno frequenti, con Pechino”.

DIVIETI AGGIRATI. La lista d’attesa è molto lunga, ma lo scalo a Mosca o a Dubai ha assicurato loro, di nuovo, una totale assenza di controlli almeno fino al 5 febbraio, giorno in cui è entrato in vigore il monitoraggio attivo della temperatura per i passeggeri di voli europei e internazionali. Ma serve davvero a qualcosa, il controllo della temperatura? “Per quello che ho capito io a Pechino, no. Se un viaggiatore è asintomatico al momento dello sbarco, i termoscanner non sono in grado di capire se è infettato o meno. Sarebbe molto più efficace un’informazione semplice e chiara ai viaggiatori: se venite dalla Cina, mettevi in auto-isolamento per due settimane. Ma sul nostro aereo non hanno mai detto nulla di simile. E nemmeno a Fiumicino. Ripeto: a emergenza in Cina già in corso, non c’è stato, da parte di nessuno, uno straccio di avviso”.