Dopo Tar e Cassazione penale, anche il Consiglio di Stato abbraccia la tesi della Procura che sta indagando sull’urbanistica milanese. Per il tribunale, infatti, si può parlare di “ristrutturazione” di un edificio, solo se quello nuovo soddisfa tre parametri: “l’unicità dell’immobile interessato dall’intervento”; la “contestualità” fra abbattimento del primo e la ricostruzione del secondo; l’utilizzo della “volumetria preesistente” senza ulteriori “trasformazioni della morfologia del territorio”. Anche il “superamento di uno solo di questi limiti”, per i giudici, trasforma il nuovo palazzo in una “nuova costruzione”.
Una sentenza potenzialmente dirimente per i processi in corso e futuri
Quella che potrebbe apparire una semplice enunciazione, arrivata sul palazzo costruito nel cortile di via Fauchè 9 (già a processo per abusi edilizi), potrebbe essere in realtà un punto dirimente in molti dei processi penali aperti a Milano. Con la sentenza di ieri, infatti, i giudici hanno fissato i paletti di cosa si debba intendere per ristrutturazione.
Se ristruttura il costruttore risparmia (e il Comune ci perde)
Un punto opaco in molte delle pratiche edilizie relative alle operazioni immobiliari finite sotto il faro dei magistrati. Se l’operatore “ristruttura”, infatti, può utilizzare la Scia e godere dei relativi sconti su oneri e monetizzazioni degli standard (i servizi pubblici).
Se invece l’operatore opera una nuova costruzione, le spese e l’iter sono diversi e assai costosi (per lui) e assai più vantaggiosi per le casse pubbliche. E proprio sull’equivoco di cosa fosse ristrutturazione (tantissimi progetti) o nuova costruzione (quasi nessuno) in questi anni hanno giocato gli immobiliaristi, che, in accordo col Comune di Milano, hanno fatto passare per ristrutturazioni dell’esistente palazzi totalmente nuovi e diversi.
Una palazzina residenziale di tre piani non è un laboratorio-deposito
Nel caso in di via Fuchet, per esempio, i massimi giudici amministrativi hanno respinto il ricorso di palazzo Marino e dei costruttori, i quali sostenevano che la “demolizione” di un “laboratorio-deposito” e la contestuale costruzione di una “palazzina residenziale” di tre piani fosse appunto una ristrutturazione. Per il consiglio di Stato, come per il Tar in primo grado, invece, quel progetto è da considerarsi una “nuova costruzione” e non una “ristrutturazione edilizia”, perché produce nuovo “carico urbanistico” sulla città e non vi è “continuità” fra il “precedente edificio” e quello “da realizzare al suo posto”.
I giudici hanno voluto porre dei paletti chiari
Ma i giudici, volendo essere chiari una volta per tutte (“‘ristrutturazione ricostruttiva’, tematica che trascende la vicenda per cui è causa ed è suscettibile di porsi in diverse altre situazioni, alimentando così il contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi”, scrivono), hanno inteso porre dei punti fermi. Per la corte, anche le più recenti leggi, come quella del 2020 che ha ampliato il concetto di ristrutturazione, sono fondate sulla finalità “conservativa” di assicurare il “recupero” del “patrimonio edilizio esistente”.
Per questo vanno escluse da questa nozione “tutte quelle opere” che non sono “funzionali al riuso del volume precedente” e che comportano “una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito”. Altro aspetto fondamentale è che uno dei paletti posti sia il divieto di “accorpamento” e “frazionamento” dei precedenti volumi “in più edifici di nuova realizzazione”, ad esempio demolendo un deposito per realizzare tre torri.
Non esistono assegni in bianco
Perché sarebbe impensabile “ritenere” che da una “demolizione” esista una “sorta di ‘credito volumetrico’ che il proprietario può spendere rimanendo comunque nell’alveo della ‘ristrutturazione'”.
Trasportata dal piano giuridico a quello pratico, la sentenza di ieri potrebbe influire in numerosi processi e indagini che hanno al centro il tema delle costruzioni di torri e grattacieli al posto di depositi, magazzini, laboratori. Non solo il processo per via Fauchè, ma anche quello per la Torre Milano di via Stresa (prossima udienza 19 novembre) e le Park Tower di via Crescenzago (processo la via il 12 novembre).
Il Pg di Cassazione contro il ricorso della Procura su Catella e Scandurra
Ma, se la procura sorride per il Consiglio di Stato, una brutta notizia arriva dal sostituto Pg in Cassazione, Cristina Marzagalli, che ha proposto di rigettare il ricorso con il quale il pool milanese ha chiesto di annullare il provvedimento del Tribunale del Riesame che, lo scorso agosto, aveva rimesso in libertà, Manfredi Catella, il Ceo di Coima, tra gli arrestati nell’indagine sulla gestione dell’urbanistica.
All’udienza del prossimo 12 novembre – che riguarda sei impugnazioni: 3 dei pm milanesi e 3 delle difese, tra cui quella dell’ex assessore, Giancarlo Tancredi – la Pg sosterrà che tra Catella e Alessandro Scandurra, allora componente della Commissione Paesaggio che decideva sui progetti di Coima, ci fossero normali rapporti di lavoro. E che le fatture pagate da Coima a Scandurra “non dimostrino la formazione, né l’operatività di un accordo corruttivo”.