La pace non conviene a Netanyahu, altro che Pro-Pal: sono i suoi ministri che vogliono prolungare la guerra

Mentre la destra italiana accusa i pro-pal di essere contro la pace, il vero ostacolo è nel governo israeliano di Netanyahu.

La pace non conviene a Netanyahu, altro che Pro-Pal: sono i suoi ministri che vogliono prolungare la guerra

Da giorni il nuovo piano di pace firmato da Donald Trump è diventato un esercizio di propaganda. Nei talk show italiani si racconta che i «propal» sarebbero delusi dalla tregua, che le piazze chiedano la guerra infinita per principio ideologico. È un racconto utile, ma falso. Perché il vero nemico della pace oggi siede a Gerusalemme, e si chiama Benjamin Netanyahu.

Dopo l’annuncio del cessate il fuoco e dello scambio tra ostaggi e prigionieri, il premier israeliano ha evitato di pronunciare la parola “fine”. Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ministri chiave della sua coalizione, hanno votato contro il piano e minacciato la crisi di governo se l’intesa dovesse «lasciare in piedi Hamas». In consiglio dei ministri, la destra radicale ha definito l’accordo «una sconfitta nazionale» e chiede la prosecuzione della guerra. Netanyahu, che senza di loro non ha maggioranza, finge di cercare la pace ma vive del suo contrario.

La trappola della coalizione

Dal 2024 il premier governa grazie all’ultradestra religiosa, dopo l’uscita di Benny Gantz dal gabinetto di guerra. Ogni tregua rischia di far crollare il suo esecutivo, ogni passo verso la pace gli costa potere. È un equilibrio instabile che Trump e i suoi consiglieri fingono di ignorare. Gli stessi commentatori italiani che inneggiano al “modello presidenziale” americano dimenticano che Washington non può imporre né giustizia né riconoscimento reale della Palestina. Gli Stati Uniti hanno sanzionato i magistrati della Corte penale internazionale che indagano su Gaza, dimostrando che il loro concetto di “pace” esclude ogni accountability.

L’Unione europea, a sua volta, si è affrettata ad applaudire il piano americano e a rilanciare il riconoscimento dello Stato di Palestina. Ma sa bene che senza una volontà israeliana il riconoscimento resterà simbolico. I governi europei sostengono l’idea di una “ricostruzione coordinata”, evitando di nominare i crimini di guerra o la distruzione sistematica di Gaza. È una diplomazia che ripara le macerie senza nominare i responsabili.

La guerra che fa guadagnare

C’è poi un dettaglio che nessuno cita: la guerra è stata un affare. Nel 2023 le cento maggiori aziende di armamenti del mondo hanno registrato ricavi per oltre 630 miliardi di dollari, record storico. Le industrie israeliane e statunitensi hanno visto aumentare ordini e commesse, e anche l’Italia ha beneficiato di un’ondata di autorizzazioni all’export militare per più di 7,6 miliardi di euro, secondo Rete Pace e Disarmo. Una pace duratura taglierebbe parte di questi guadagni e ridurrebbe la domanda internazionale di armamenti.

La retorica e la realtà

In questo scenario, la destra italiana — e non solo — preferisce prendersela con chi manifesta per la Palestina. È più semplice raccontare che siano i “propalestinesi” a temere la pace, che ammettere che l’alleato israeliano non la vuole. Eppure sono i ministri di Netanyahu, non gli attivisti, a dichiarare che la guerra deve continuare «finché Hamas non sarà cancellata dalla terra».

Il resto è propaganda da esportazione: Trump che si accredita come pacificatore, Netanyahu che sopravvive al suo stesso governo, l’Europa che applaude fingendo di non sapere. Intanto Gaza è in rovina, la giustizia è esclusa dal tavolo e l’unica pace realmente giusta — quella fondata sul diritto — resta la più temuta da chi della guerra ha fatto un mestiere e un profitto.