La povertà non è una colpa

Tra gli sport di moda in questa estate post lockdown, vomitare odio sul Reddito di cittadinanza, come se contrastare la povertà fosse una colpa, non ha rivali. Questo atteggiamento è la spia lampeggiante che il nostro Paese, come un aereo in avaria, precipita a capofitto nella decadenza. Descrivere i percettori del Reddito come giovinastri che passano le giornate sul divano o in sala giochi, non è solo ignobile: significa violentare la verità. E ancor più significa aver dimenticato la solidarietà come una delle nostre conquiste civili. Avevamo cinque milioni di italiani sotto la soglia della povertà assoluta. Oggi oltre tre milioni (1,71 milioni di nuclei famigliari) sono sostenuti dal Reddito, grazie al quale, tra l’altro, sono state molto alleviate le sofferenze sociali del lockdown. A suo tempo, pur criticandone i tempi e certe modalità, definii il Reddito la più importante misura socialista dopo lo Statuto dei lavoratori del 1970. Lo confermo. Oggi molti Paesi in Europa e nel mondo hanno adottato o stanno per adottare misure simili. La Spagna, diceva il premier Sànchez giorni fa, sta studiando una forma di sostegno ispirata a quella italiana. Nelle Filippine, nazione povera con 100 milioni di abitanti, il governo dispensa 100 euro al mese alle famiglie sotto la soglia della povertà: consideri che lì la paga di una commessa è di 85 euro e quella di un operaio 150. Solo da noi sbraitano illustri giornalisti per i quali “i meridionali sono inferiori”, e sbraitano i partiti sovranisti, come se essere sovrani non significhi anche solidarizzare con i propri poveri. Una cosa immonda.