Basta, davvero. A Gaza la parola “tregua” continua a funzionare come un anestetico. L’Unicef conta almeno 67 bambini uccisi dall’inizio del cessate il fuoco, quasi due al giorno. Medici Senza Frontiere racconta un raid del 19 novembre: sei feriti, una bambina di nove anni colpita al volto, un quindicenne, un uomo di 71 anni. Nei comunicati ufficiali tutto questo diventa “incidente”, come se bastasse un sinonimo gentile per cancellare la scena.
Intanto la mappa della Striscia viene riscritta. L’area gialla controllata dall’esercito supera metà del territorio. A Gaza City i militari avanzano verso Shujaiya, spingendo le famiglie più a ovest dentro quella che le fonti locali chiamano «gabbia». Un uomo sfollato è stato ucciso fuori dalla zona militare, nel punto che l’accordo indicava come relativamente sicuro. Anche questo, nel linguaggio diplomatico, rientra nella “tregua”.
In Cisgiordania due ragazzi di 18 e 16 anni sono morti dopo un’incursione a Kafr Aqab. A Nablus e Ramallah gruppi di coloni hanno incendiato magazzini e serre, spesso coperti dall’esercito. La guerra non è ferma: è solo descritta come se lo fosse.
Sul piano politico Israele prepara la “seconda fase” dell’accordo con una task force che include ministri contrari alla tregua stessa. Netanyahu lega la riapertura di Rafah alla restituzione dei corpi degli ostaggi e aggiunge che sarebbe «felice» se l’Egitto permettesse agli abitanti di Gaza di andarsene.
Ecco perché serve restituire senso alle parole. Se chiamiamo “tregua” giorni in cui si muore, se chiamiamo “pace” un dispositivo di controllo territoriale, allora non stiamo raccontando i fatti: li stiamo coprendo. A Gaza oggi non c’è tregua. C’è una guerra che si prende la libertà di farsi chiamare diversamente.