di Vittorio Pezzuto
Il 25 giugno 1946 viene inaugurata la Costituente e le prime deputate della storia italiana possono finalmente fare il loro ingresso a Montecitorio. Così ce le descrive il giorno dopo un articolo apparso sulla prima pagina di “Risorgimento liberale”: «Delle venti donne elette fu prima, alle tre e mezza, la on. Bianca Bianchi, socialista, professoressa di filosofia che a Firenze ha avuto 15.000 voti di preferenza. Vestiva un abito colore vinaccia e i capelli lucenti che la onorevole porta fluenti e sciolti sulle spalle le conferivano un aspetto d’angelo. Vista sull’alto banco della presidenza dove salì con i più giovani colleghi a costituire l’ufficio provvisorio, ingentiliva l’austerità di quegli scanni. Era con lei (oltre all’Andreotti, al Matteotti e al Cicerone) Teresa Mattei, di venticinque anni e mesi due, più giovane di tutti nella Camera, vestita in blu a pallini bianchi e con un bianco collarino. Più vistose altre colleghe: le comuniste in genere erano in vesti chiare (una in colore tuorlo d’uovo); la qualunquista Della Penna in color saponetta e complicata pettinatura (un rouleau di capelli biondi attorno alla testa); in tailleur di shantung beige la Cingolani Guidi, che era la sola democristiana in chiaro; in blu e pallini rossi la Montagnana; molto elegante, in nero signorile e con bei guanti traforati la Merlin; un’altra in veste marmorizzata su fondo rosa». Sessantasette anni e sedici legislature dopo ben poco è cambiato nelle cronache di giornali e settimanali, che continuano infatti ad aggiornarci coscienziosi sulla nuova pettinatura di Mariastella Gelmini, sulla stagione sentimentale di Mara Carfagna così come sugli abiti indossati in aula dalle parlamentari più glamour. Uno stilema narrativo duro a morire e che nessuno si è ovviamente mai sognato di applicare ai loro colleghi maschi: alzi infatti la mano chi abbia mai letto apprezzamenti di sorta sui completi indossati da un ingrigito senatore o sul nuovo taglio di capelli sfoggiato da un giovane deputato. Sulla competenza delle parlamentari prevale insomma il pregiudizio dell’aspetto esteriore, tanto che nessuno si è sorpreso quando alcune esponenti del Pd hanno recentemente intossicato il dibattito interno al loro partito denunciando il criterio (innanzitutto) estetico che avrebbe promosso la graziosa Alessandra Moretti ad astro di primo piano della costellazione bersaniana.
Una macchia rosa sempre più vasta
Sentendosi ancora le figlie di un dio minore della politica, diverse donne tentano così di far squadra al fine di cogliere successi che rilancino il protagonismo del loro genere. Alcune inesauste vestali delle quote rosa stanno ad esempio montando in queste ore una polemica sul numero risibile – appena cinque su cinquantotto (esattamente come nel 2006) – delle delegate che i consigli regionali hanno deciso di inviare a Roma per partecipare all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Lamentano a gran voce di essere tenute fuori da una decisione così importante. La logica impietosa dei numeri dà loro ragione e non è certo una valida consolazione il ricordare come si tratti di un dato storicamente immutato: pensate che la prima delegata regionale fu la piemontese Luigia Fassio Ottaviano che il 24 giugno 1985 concorse ad eleggere Francesco Cossiga mentre il record della loro presenza resta tuttora fermo al 1999, quando ‘addirittura’ in sei parteciparono allo scrutinio che avrebbe innalzato al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi. Incuriositi, abbiamo così pensato di fare una piccola ricerca per verificare se il numero complessivo delle grandi elettrici sia o meno cresciuto nel corso delle diverse elezioni del Capo dello Stato. E abbiamo scoperto con soddisfazione che tanta, tantissima strada è stata percorsa sull’accidentata via della rappresentanza femminile in Parlamento. Rispetto al corpo elettorale che nel 2006 scelse il presidente Napolitano, l’attuale numero delle grandi elettrici è infatti quasi raddoppiato (passando da 159 a 295). Come dimostra la tabella che pubblichiamo in pagina (riporta la casistica dal 1978, anno in cui nei resoconti di Camera e Senato è invalso l’uso di indicare il nome accanto al cognome di ogni singolo grande elettore), una macchia rosa sempre più vasta si è allargata nel Parlamento riunito in seduta comune. Resta però da capire se questa rivendicazione di genere abbia senso quando viene presentata come l’elisir in grado di favorire finalmente l’elezione di una donna a Presidente della Repubblica. Non è infatti detto che una donna ne voti un’altra (anzi, spesso avviene il contrario) e non pensiamo che la grave crisi istituzionale in atto consenta il lusso di una scelta dettata innanzi tutto dal criterio sessuale, proprio adesso che è finalmente evaporata la regola non scritta dell’alternanza al Colle di un laico con un cattolico.
Un voto autonomo?
Vorremmo confidare che il 18 aprile, nel segreto dell’urna, ciascun grande elettore (maschio o femmina che sia) saprà ragionare con la propria testa nell’interesse del Paese, senza ammanettarsi alla disciplina di gruppo. Ma dubitiamo che parlamentari nominati dalle segreterie di partito potranno dare una grande prova di indipendenza. D’altronde il vizio dell’obbedienza acritica e un poco servile ai capibastone risale addirittura agli esordi della nostra Repubblica, quando si trattò di eleggere l’ufficio di presidenza dell’Assemblea Costituente. Tassativo fu allora l’ordine di scuderia della Democrazia Cristiana per quanto riguardava la scelta dei due vicepresidenti, dei segretari e dei questori. A ciascuno dei duecento deputati del più grande partito dell’Italia democratica venne infatti consegnato riservatamente un foglio al ciclostile con sopra scritti i nomi da votare. Un onorevole distratto dimenticò il suo sul banco e si venne così a sapere che duecento libere coscienze avrebbero votato compatte Micheli e Pecorari vicepresidenti, Mattarella questore e Schinetti, Chieffi e Petrilli segretari. Nel suo ormai introvabile “I moribondi di Montecitorio” il grande cronista parlamentare Vittorio Gorresio così commenterà l’amarezza della scoperta: «Se il sistema coattivo viene applicato anche nei casi che non hanno grande importanza figuriamoci cosa ha da succedere quando si tratterà di questioni più gravi. Gli terranno la mano nello scrivere, come ai bimbi inesperti. Perché si vota allora, ci chiedevamo, perché ci vanno i deputati e le deputate all’assemblea? O, per dir meglio, perché noi stessi siamo andati il due giugno a far la fila davanti alle sezioni elettorali? Non sì è mai vista, diceva uno, la necessità di eleggere i coristi e le comparse». Considerazioni attualissime. Purtroppo.