Nel giorno dedicato alla libertà di stampa, la segretaria generale della Federazione nazionale della stampa italiana, Alessandra Costante, si è detta “felice di sapere che la libertà di informazione è importante per la premier”. Poi ha fatto ciò che tocca a un sindacato: ha chiesto conto delle promesse. Perché nel frattempo, la macchina dello Stato le ha lasciate in sospeso.
L’Europa chiede trasparenza, l’Italia tace
In cima alla lista, l’EMFA, il nuovo Regolamento europeo per la libertà dei media, approvato a marzo dal Parlamento europeo. Obbligatorio per tutti gli Stati membri, dovrebbe garantire l’indipendenza editoriale, la trasparenza nei finanziamenti e proteggere i giornalisti da sorveglianze arbitrarie e interferenze politiche. Soprattutto impone una governance indipendente per i media di servizio pubblico. Un principio che, applicato in Italia, richiederebbe una radicale revisione del controllo politico sulla Rai. Ma sull’adozione dell’EMFA, la presidente del Consiglio non ha fornito alcuna certezza. Nessuna dichiarazione ufficiale. Nessun calendario di attuazione.
La normativa europea vieta interferenze nella linea editoriale, impone che i finanziamenti pubblici siano trasparenti e prevede la creazione di un organismo europeo di vigilanza. A essere incompatibile non è solo il sistema Rai, ma anche l’intero impianto della proprietà editoriale in Italia. È un cortocircuito che richiede una volontà politica esplicita per essere sciolto. Finora non pervenuta.
Una legge a nome Meloni, ferma da mesi
Poi ci sono i giornalisti che faticano a farsi pagare. In Italia oltre il 60% dei giornalisti attivi è freelance, molti dei quali collaborano con le testate senza un contratto regolare. Quando il compenso non arriva, l’unica strada è il tribunale civile. Tempi lunghi, spese elevate, cause che spesso non valgono il costo dell’azione.
È per questo che la Fnsi e l’Ordine dei giornalisti chiedono da anni l’attuazione della liquidazione giudiziaria dei compensi: uno strumento che consenta al giudice di determinare rapidamente il pagamento spettante, anche in assenza di un contratto scritto, sulla base dei minimi stabiliti dal contratto nazionale. Una misura approvata nel 2021, con un emendamento firmato proprio da Giorgia Meloni. Un nome in calce che non è bastato a portarla all’attuazione.
Il paradosso è tutto qui: la legge c’è, ma non funziona. Il dossier giace da cinque mesi in un cassetto del ministero della Giustizia, mentre il governo continua a lodare il pluralismo dell’informazione nelle dichiarazioni ufficiali.
Infine, l’ultima frontiera dell’anomalia italiana: il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Nonostante le sentenze della Corte costituzionale e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’Italia continua a prevedere la pena detentiva per chi scrive. Si moltiplicano le querele temerarie, le richieste di risarcimento milionarie, i procedimenti strumentali che producono solo un effetto: silenziare.
L’EMFA chiede agli Stati membri di garantire che le misure contro la disinformazione non si traducano in strumenti per intimidire i media. In Italia, invece, le cause civili e penali restano il principale strumento usato da imprenditori, politici e amministratori pubblici per colpire le redazioni e i singoli giornalisti.
La premier ha detto di tenere alla libertà di stampa. Il sindacato le chiede di provarlo con atti concreti: attuare l’EMFA, riformare la governance della Rai, far uscire la liquidazione giudiziaria dal cassetto, abolire il carcere per la diffamazione. Ad oggi, però, le promesse sono tutte a scadenza. E nessuna è stata rinnovata.