Per i renziani “il Napolitano-bis è un fallimento”

di Vittorio Pezzuto

La ricreazione è finita. Scarmigliati e con le vesti ancora scomposte per la gazzarra da cortile alla quale si sono lungamente abbandonati, ieri i parlamentari del Pd hanno seguito contriti e plaudenti la severa ramanzina impartita loro dal maestro Giorgio Napolitano. Divisi tra un sentimento di riconoscenza per il suo gesto di grande generosità e il fondatissimo timore che d’ora in poi sarà loro ben difficile dettare alcuna condizione per la formazione del prossimo governo. Paralizzato dai franchi twittatori ma soprattutto dal sotterraneo astio personale che ormai guida pancia e cuore di gran parte della sua classe dirigente, il partito che nemmeno due mesi or sono è stato il più premiato nelle urne si presenta adesso frantumato e in ordine sparso: difficile mappare nel dettaglio ex fedelissimi bersaniani in cerca di opportunistico riparo, giovani turchi che riscoprono per incanto il valore dell’età anagrafica, burocrati di partito che invocano il salvifico arrivo di Fabrizio Barca e infine rottamatori di lungo corso vicini a quel Matteo Renzi che proprio ieri ha rotto gli indugi e si è apertamente candidato alla guida del partito. Tra questi il deputato Dario Nardella, che ammette con franchezza: «Napolitano ha inteso mettere fine alla nostra sofferenza ma la sua rielezione è la cifra del fallimento del partito: al punto in cui eravamo arrivati, qualsiasi candidatura sarebbe rimasta maciullata nel frullatore impazzito del Pd. Abbiamo consegnato le chiavi al Presidente perché del tutto incapaci di trovare una soluzione. A questo punto non possiamo che attendere la sua iniziativa dopo che lo abbiamo supplicato in ginocchio di restare al Colle».

Una storia incompiuta
Del suo partito Nardella invoca una «rifondazione da zero, superando finalmente i limiti della fusione a freddo tra ex comunisti ed ex popolari margheritini. La nostra è una storia incompiuta e come tale o si finisce di scriverla oppure si straccia tutto quanto». E se a scriverne l’ultimo capitolo fosse un ministro tecnico del fallimentare governo Monti? «L’insistito sguardo a sinistra di Barca sembra più un atto nostalgico che una promessa di futuro. Il suo arrivo aiuterà comunque a fare una drastica chiarezza. Noi infatti pensiamo di doverci muovere in un’ottica bipolare se non addirittura bipartitica, rivalutando la vocazione maggioritaria del Pd». Il che significa smetterla di demonizzare Berlusconi e soprattutto il suo elettorato, la terra promessa della vittoria passando infatti attraverso la conquista degli italiani delusi dal centrodestra: «Abbiamo trascorso vent’anni a combattere il Cavaliere su un piano di odio ideologico e personale. E così ne siamo stati la linfa, la sua stessa ragion d’essere. Ogni volta gli abbiamo regalato strumenti, energia e opportunità per risorgere dalle sue difficoltà. Se vogliamo diventare un grande partito dobbiamo liberarci di questo complesso e comprendere che l’avversario si sconfigge con l’iniziativa politica e non augurandosi che vada in galera. Non si può restare sospesi tra l’odio ideologico e l’inciucio: in mezzo a questi due estremi passa la prateria gigantesca della sfida sulle riforme». E se l’invocata chiarezza portasse a una scissione? «Lo vedremo a suo tempo. Trovo però davvero curioso che alcuni vogliano già intossicare il dibattito con una minaccia del genere. Se così fosse, l’idea stessa di un confronto sarebbe inutile».