“A brevissimo è previsto il trasferimento dei primi 40 stranieri irregolari”. Con queste parole, pronunciate durante le celebrazioni per l’anniversario della fondazione della Polizia, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha annunciato l’avvio dei trasferimenti nei centri per migranti costruiti in Albania. Si tratta dei primi effetti concreti del controverso protocollo Roma-Tirana, che prevede la detenzione extraterritoriale di persone migranti in attesa di espulsione. Ma dietro la retorica dell’innovazione si nasconde un’operazione fragile, opaca e rischiosa sul piano giuridico, economico e dei diritti umani.
Una toppa al fallimento
Il piano iniziale prevedeva che i centri albanesi accogliessero persone salvate in mare e richiedenti asilo provenienti da paesi “sicuri”, da trattenere per l’esame accelerato delle domande. Ma l’attesa della pronuncia della Corte di giustizia europea sulla nozione di “paese sicuro” ha congelato per mesi l’attuazione del protocollo. Così, per evitare il naufragio politico e simbolico dell’accordo, il governo ha approvato un decreto (28 marzo 2025) che cambia la destinazione d’uso delle strutture: da centri per richiedenti asilo a veri e propri Cpr, Centri di permanenza per il rimpatrio, destinati a trattenere persone già sottoposte a provvedimenti di espulsione.
È una toppa che non regge, denunciano le associazioni. La stessa ActionAid ha definito “ingiustificata” l’urgenza dichiarata dal governo, ricordando che i Cpr italiani sono utilizzati solo al 52% della loro capienza e che il trasferimento coatto in Albania incide in modo sproporzionato su diritti fondamentali come la difesa e la libertà personale. La detenzione amministrativa, peraltro, non prevede un’accusa né una condanna, ma si traduce comunque in una limitazione della libertà. Esportarla fuori dai confini nazionali, senza garanzie e con procedure confuse, rappresenta secondo molti osservatori un pericoloso precedente.
Costi duplicati, diritti ignorati
A questo si aggiungono le numerose criticità logistiche. I trasferimenti non avverranno in aereo ma via nave, con l’impiego della Marina Militare o della Guardia costiera. Mancando un accordo bilaterale che consenta alle forze italiane di operare in Albania, è altamente probabile che i rimpatri nei paesi d’origine debbano comunque partire dall’Italia. Questo significa riportare in patria le persone già trasferite, con un doppio viaggio, un aggravio di costi e una complicazione operativa non da poco. Una “trappola logistica” che mina alla radice l’efficienza dell’intera operazione.
Anche le informazioni sui trasferimenti sono lacunose. Non è noto da quali Cpr provengano le persone coinvolte, né con quali criteri siano state selezionate. Una settimana fa otto trattenuti sono stati spostati da Trapani a Brindisi, probabilmente in vista dell’imbarco. Si parla di 40 o 50 migranti, ma nemmeno l’ente gestore del centro di Gjadër – Medihospes – ha ricevuto indicazioni ufficiali. Nessun presidio di polizia, nessuna autorità albanese sul posto. Una gestione opaca che, come ha dichiarato la deputata Rachele Scarpa (Pd), “sembra frutto dell’improvvisazione”.
L’obiettivo sembra essere uno solo: evitare di ammettere il fallimento di un progetto presentato in pompa magna e costato, secondo le stime, circa un miliardo di euro ai contribuenti italiani. Un progetto che ha richiesto modifiche legislative in corsa, in evidente deroga alle garanzie costituzionali, per non restare un’enorme cattedrale nel deserto. Anche il Tavolo Asilo e Immigrazione ha criticato duramente l’iniziativa, parlando di “una legislazione speciale e discriminatoria” che viola l’articolo 13 della Costituzione e il principio dell’habeas corpus.
Nel frattempo, la Corte di giustizia europea ha fatto sapere che gli Stati membri possono designare come “sicuri” paesi terzi, ma devono fornire le fonti su cui basano tale decisione. Un passaggio tutt’altro che secondario, che potrebbe riaprire il dibattito sulla legittimità dell’intero impianto normativo italiano sulla gestione dei flussi e sull’uso dei Cpr, in patria e all’estero.
Nel mezzo, restano le persone. Trattenute per mesi senza reato, spesso vittime di abusi e autolesionismo, ora costrette a ore di viaggio via mare verso una struttura isolata, senza rete, senza chiarezza, senza diritti pienamente garantiti. Per molti, una deportazione mascherata. Per il governo, solo propaganda da tenere a galla a qualunque costo.