Rama rifila un pacco all’amica Meloni. I centri per i rimpatri non si possono fare in Albania

L'accordo tra Italia e Albania per realizzare centri per migranti è fragilissimo dal punto di vista giuridico.

Rama rifila un pacco all’amica Meloni. I centri per i rimpatri non si possono fare in Albania

Al di là degli aspetti politici – condannabili fin dalla radice – il nuovo accordo con il premier albanese Edi Rama di cui è fiera la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è fragilissimo dal punto di vista giuridico. Le leggi, che piaccia o no, contano molto di più della propaganda. E saranno le leggi, ancora prima del fallimento della retorica, a far cadere il castello di bugie. Innanzitutto ci sono gli accordi dell’Unione europea.

L’accordo tra Italia e Albania per realizzare centri per migranti è fragilissimo dal punto di vista giuridico

L’altro ieri la presidente del Consiglio ha dichiarato alla stampa che il Memorandum d’intesa con l’Albania prevede la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. La presidente del Consiglio aveva anche dichiarato che l’Unione europea era stata informata dell’iniziativa. Le dichiarazioni di ieri della Commissione europea dicono tutt’altro: “Siamo stati informati dell’accordo Italia-Albania prima dell’annuncio”, ha spiegato la portavoce lasciando intendere che anche nelle istituzioni brussellesi si attende di conoscere i dettagli del documento.

Bruxelles ora vuole verificare se tra i punti dell’accordo non emergano violazioni degli Accordi di Dublino, dato che si tratta di un patto con uno Stato terzo, fuori dall’Unione. Dal testo circolato si apprende che i migranti che potranno essere trasferiti nei due centri pensati per l’accoglienza temporanea in Albania, in attesa della valutazione della loro domanda di protezione internazionale, sono solo quelli soccorsi in mare dalle navi delle autorità italiane.

Questo potrebbe far sì che l’Italia, pur assumendosi tutte le responsabilità della gestione di queste persone anche in territorio albanese, non risulti Paese di primo approdo e non sia quindi costretta a gestire tutto l’iter di valutazione dei singoli casi sul suolo nazionale. Come sottolinea l’avvocato esperto in diritti umani, Fulvio Vassallo Paleologo sul sito dell’Associazione diritti e frontiere (Adif) La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana”, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici).

In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea.

I giuristi sottolineano anche come i precedenti di applicazione extraterritoriali sono pessimi: “L’accordo tra Australia e Papua Nuova Guinea, che ha “affittato” alcune isole per far costruire strutture di trattenimento, e quello Uk-Ruanda sospeso dalla Corte d’appello britannica. – spiegava ieri Maurizio Veglio, l’avvocato esperto in protezione internazionale avvocato, che fa parte dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) – Questi esempi mostrano la peggiore ripartizione possibile di oneri tra un paese servente e uno dominante. Tornando all’accordo tra Meloni e Rama, è tutto da verificare cosa debba fare l’autorità albanese per garantire che un territorio di sua giurisdizione sia espropriato e soggetto a norme italiane e Ue nei cui confronti l’Albania non ha alcun vincolo”.

Ci sarebbe poi l’impossibilità di fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Non solo: riconoscere l’Albania come “Paese sicuro” non autorizza respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. Come ricorda Vassallo Paleologo “la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro Paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo”. Per le polemiche politiche invece basta la frase dello stesso premier albanese Rama che in un’intervista laconicamente dice “ce l’hanno chiesto ma non servirà a niente”.