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Redazione

Referendum, il grande blackout sulla consultazione popolare dell’8 e 9 giugno

Cinque referendum su lavoro e cittadinanza. Ma la strategia è chiara: silenzio mediatico per spingere all’astensione.

Pubblicato il 9 Maggio 2025 di Giulio Cavalli
Referendum, il grande blackout sulla consultazione popolare dell’8 e 9 giugno

Cinque quesiti referendari, otto e nove giugno. Si vota su tutele contro i licenziamenti, su contratti a termine, su sicurezza negli appalti, su cittadinanza. Una chiamata popolare per riscrivere diritti. Ma il Paese non lo sa. Non lo sa perché nessuno glielo ha detto. E questo, più che una dimenticanza, è un progetto.

La Rai, finanziata con soldi pubblici, ha taciuto. Fino a maggio – denunciano CGIL, Articolo21 e una lunga lista di studiosi – zero minuti di approfondimento. Nessun confronto. Nessun servizio nei telegiornali. Nessuna informazione utile. Solo silenzio. Un silenzio che coincide perfettamente con l’interesse della maggioranza: affondare i referendum senza nemmeno doverli discutere.

Referendum, il quorum come cortina fumogena

Basta un dato: per essere validi, i referendum devono raggiungere il quorum, il 50% più uno degli elettori. È sufficiente che la metà del Paese non si presenti alle urne, e le proposte saranno automaticamente affossate. Nessun “No” necessario. Solo silenzio e diserzione. E infatti, la strategia è esplicita: Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega hanno invitato apertamente all’astensione. Con note ufficiali, dichiarazioni pubbliche, circolari interne. Si chiama “astensionismo politico”, ma è un altro nome per dire sabotaggio.

Lo scenario è collaudato. Nessuna argomentazione nel merito, nessun confronto tra visioni diverse. Solo l’obiettivo: non far arrivare le persone al seggio. E quando il silenzio mediatico fa da amplificatore, il risultato è servito. L’elettore medio ignora il contenuto dei quesiti, il dibattito è assente, la partecipazione si spegne. Anche il quesito sulla cittadinanza – che propone di ridurre da dieci a cinque anni il requisito di residenza per le persone straniere – viene trattato come se fosse marginale, nonostante coinvolga centinaia di migliaia di vite.

L’inerzia del servizio pubblico sui referendum

La stessa Commissione di vigilanza sulla Rai ha dovuto intervenire con una delibera prescrittiva: obbligo di spot, confronto fra posizioni contrapposte, accessibilità per tutti, perfino l’uso della LIS. Ma siamo a maggio. Troppo tardi. I promotori parlano ancora di “assenza totale di copertura” nei principali canali. Persino Usigrai, il sindacato dei giornalisti RAI, ha denunciato la contraddizione: il referendum è discusso nelle redazioni, ma assente nei palinsesti.

Nel frattempo Mediaset si limita a schede tecniche. Sky TG24 e La7 mostrano qualche spiraglio: interviste, servizi sui partiti, informazioni per i fuorisede. Ma la portata è limitata. Nessun dibattito nazionale. Nessun confronto articolato. Nessuna mobilitazione. Un’informazione “di servizio”, che non costruisce consapevolezza.

Astensione e diserzione

È un’astensione che somiglia a una censura. Non è il popolo che rifiuta il referendum, è il referendum che viene fatto scomparire dal discorso pubblico. E il governo lo rivendica. Giorgia Meloni afferma che non partecipare è legittimo dissenso. Tajani lo definisce “una scelta politica”. Salvini lo chiama “il massimo dell’impegno”. È una linea comune. Organizzata. Istituzionalizzata. Perfino il presidente della Repubblica, che pure ha più volte richiamato alla partecipazione democratica, è stato ignorato.

Nel frattempo CGIL, promotrice di quattro dei cinque quesiti, organizza presidi davanti alle sedi Rai. Lancia appelli. Chiede un minimo di decenza democratica. Articolo21 raccoglie decine di migliaia di firme in poche ore. Accademici e intellettuali pubblicano lettere aperte: “Vivere da cittadini, lavorare con dignità”. Ma il silenzio resiste. È diventato una struttura.

Se la democrazia ha bisogno di parola, allora l’astensionismo organizzato è una forma di repressione. Non chiude i seggi, li svuota. E lo fa con l’arma più subdola: l’invisibilità. Così, mentre si discute di premierato e di “volontà popolare”, si cancella l’unico spazio in cui la volontà popolare può agire direttamente. E chi invita a disertare il referendum è lo stesso che vorrebbe un capo del governo scelto dal popolo. Ma solo quando conviene.

Nel vuoto costruito intorno a questo voto, l’unico gesto che ancora pesa è quello più semplice: andare alle urne. Farlo diventa un atto di resistenza civile. Un gesto contro l’oblio programmato.

di Giulio Cavalli

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