Laura Santi: “Ricordatemi come una donna che ha amato la vita”. Addio all’attivista malata di sclerosi multipla: si è autosomministrata un farmaco letale

Ha lottato per vivere e poi per scegliere di morire. Laura Santi lascia un’eredità civile che il Parlamento non può più ignorare

Laura Santi: “Ricordatemi come una donna che ha amato la vita”. Addio all’attivista malata di sclerosi multipla: si è autosomministrata un farmaco letale

Il 21 luglio 2025, in una stanza silenziosa della sua casa di Perugia, Laura Santi ha compiuto l’ultimo atto di una battaglia durata anni. Con il solo movimento di tre dita della mano destra, si è autosomministrata un farmaco letale. Era affetta da sclerosi multipla progressiva, una malattia che le aveva tolto tutto tranne la lucidità e la determinazione. Aveva 50 anni. Accanto a lei, il marito Stefano. Sul comodino, una lettera: “Ricordatemi come una donna che ha amato la vita”.

Giornalista, attivista, consigliera dell’Associazione Luca Coscioni, Laura Santi non ha scelto la morte. Ha rivendicato la libertà di non subire la sofferenza come condanna. La sua è stata un’azione politica, non ideologica. Una dichiarazione d’amore per la vita, resa insopportabile da una condizione che lei stessa ha descritto come “una routine feroce”, fatta di cateterismi, immobilità, spasticità notturne, dolore non trattabile e totale dipendenza per ogni minimo gesto quotidiano.

Una vita piena, prima della malattia

La diagnosi arrivò a 25 anni. Per altri quindici, Laura tenne testa alla malattia: lavorava, nuotava, viaggiava. Era giornalista, addetta stampa, viaggiatrice curiosa e impegnata, soprattutto in ambito sociale. Aveva lavorato per Il Messaggero, Il Corriere dell’Umbria, televisioni locali e organizzazioni non profit. Raccontava storie di disabilità prima ancora di viverla sulla propria pelle, intuendo forse che la parola scritta è l’unico argine contro la sparizione sociale. Non c’era rifiuto della vita, ma una resistenza tenace.

Poi, dal 2014, il tracollo: sclerosi multipla progressiva, sedia a rotelle, perdita dell’autonomia. Da allora, la progressione è stata “inarrestabile”, con un peggioramento feroce nell’ultimo anno. In quel corpo diventato trappola, Laura conservava uno “sguardo in più”, come lo definiva lei stessa: sapeva vedere ancora una rosa nel giardino del vicino, e considerarla un viaggio. Amava la vita. È la vita che non l’amava più.

Il muro della burocrazia

Nel 2022 ha avviato l’iter per il suicidio medicalmente assistito, previsto dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. L’Asl Umbria 1 ha però respinto la richiesta: secondo l’azienda sanitaria, Laura non era “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”. Come se il catetere, la gestione intestinale, la nutrizione assistita non fossero trattamenti, ma solo dettagli trascurabili.

Inizia così una guerra legale durata oltre due anni: due denunce, due diffide, un ricorso d’urgenza, un reclamo, centinaia di pagine di perizie, burocrazia e silenzi. Solo a novembre 2024 arriva il riconoscimento formale dei requisiti. A giugno 2025, la procedura viene finalmente autorizzata.

“Se davvero avessi avuto così fretta di morire, non avrei aspettato due anni e mezzo”, aveva scritto. Era la prova che non cercava la morte. Pretendeva il diritto di scegliere quando e come finire una vita che non riconosceva più come propria. Una battaglia che ha condotto con un linguaggio laico, civile, implacabile: “Non crediate che sia una resa. Ho vinto sulla sofferenza. Custodite la mia memoria e non siate tristi: io sono già altrove”.

Una legge che manca, un Parlamento che tace

Laura non è morta per una legge che non c’è. È morta malgrado l’assenza di una legge. Ha forzato i confini di un diritto esistente, ma costantemente negato da una burocrazia che confonde il formalismo con l’etica. La sua storia ha prodotto un precedente. La sua battaglia ha contribuito alla sentenza 135/2024, che ha esteso il concetto di “sostegno vitale” oltre la ventilazione meccanica, riconoscendo la realtà di pazienti come lei. Ha costretto il sistema a guardarsi allo specchio.

Eppure, a distanza di sei anni dalla sentenza della Corte, nessuna legge organica è stata approvata. Il Parlamento tace. Il governo propone norme restrittive che, come Laura ha denunciato pochi giorni prima di morire, “avrebbero negato a me quel diritto”. Un testo che esclude pazienti con patologie non terminali, non connessi a macchinari, che non prevede tempistiche certe, né garanzie procedurali. Una legge che punisce la sofferenza con l’attesa.

Il testamento politico di Laura Santi

L’ultima parola di Laura è un mandato: “E nel ricordarmi, non vi stancate mai di combattere. Pretendete una buona legge, che rispetti i malati e i loro bisogni. Esercitate il vostro spirito critico, fate pressione, organizzatevi, non restate a guardare”. Chi la conosceva la descriveva come una donna piena di ironia, tenerezza e bellezza. Ha chiesto un funerale civile. Aveva preparato una playlist musicale e le letture. “Voglio essere ricordata per la bellezza che ho amato, non per la malattia che ho subito”.

La sua morte è la denuncia di un Paese che scarica sulle spalle dei malati le omissioni della politica. È il volto di un’Italia che, per paura ideologica, preferisce il silenzio al coraggio normativo. Ma è anche una lezione di libertà, che non ammette interpretazioni. “La mia vita appartiene a me”, ha scritto. A chi, se non a lei?