Nel cuore della propaganda governativa c’è l’idea che le «buste paga più pesanti» stiano certificando una nuova stagione del lavoro italiano. I numeri dell’Inps analizzati da Lorenzo Ruffino mostrano un’altra scena: un Paese in cui l’occupazione cresce, mentre i salari continuano a muoversi dentro un recinto sempre più stretto, tra divari territoriali, part-time forzati e stipendi reali erosi dall’inflazione.
Il Paese dei 24 mila euro
La retribuzione media dei dipendenti privati si ferma a 24.486 euro lordi annui. È una media che si regge su pochi territori e pochi settori, mentre alla base c’è una massa consistente di lavoratori che affronta la vita con molto meno. Un quarto dei dipendenti non supera i 10 mila euro lordi, un altro 23 per cento sta tra i 10 e i 20 mila. Tre quarti del mercato del lavoro privato rimane sotto i 30 mila euro.
Il divario di genere è netto: gli uomini superano in media i 27 mila euro, le donne restano sotto i 20 mila. La metà delle lavoratrici è impiegata in part-time involontario, un vincolo che riduce drasticamente il reddito disponibile. Nel turismo la retribuzione annua si ferma poco sopra gli 11 mila euro, cifra che descrive un intero pezzo dell’economia fondato su stagionalità e contratti brevi.
La geografia amplia tutto: la Lombardia supera i 30 mila euro lordi, l’Emilia-Romagna sfiora i 26 mila, mentre Calabria, Sicilia e Campania oscillano tra i 15 e i 19 mila. In molte aree del Sud gli stipendi non raggiungono la soglia necessaria per sostenere un progetto di vita adulta.
La progressione per età racconta un avanzamento lento. I 20-29enni non arrivano a 16 mila euro, i 30-39enni superano di poco i 23 mila, il picco si raggiunge tra i 55 e i 59 anni con circa 30.900 euro. Numeri che mostrano una carriera retributiva compressa, senza scatti reali, incapace di recuperare l’inflazione accumulata nell’ultimo decennio.
La distanza tra redditi nominali e salari reali
Il governo rivendica il taglio del cuneo contributivo e la riforma Irpef come motore del rilancio salariale. La dinamica delle retribuzioni mostra altro: l’aumento del 3,4 per cento nel 2024 deriva quasi completamente da misure fiscali temporanee, non da una contrattazione capace di trasferire ricchezza ai lavoratori. Senza quei tagli il netto tornerebbe a schiacciarsi, perché i salari reali non hanno recuperato il terreno perduto.
Gli stipendi, depurati dall’inflazione, restano più bassi rispetto al periodo pre-pandemico. Le analisi internazionali confermano che l’Italia è tra i pochi Paesi europei in cui i salari reali non hanno riconquistato i livelli di inizio secolo. In un contesto di prezzi elevati, mutui più costosi, affitti in salita e spesa energetica instabile, la nominalità diventa un indicatore fragile.
È qui che la distanza tra la narrazione e i dati si fa politica. Il governo presenta come scelta di campo il taglio del cuneo, che non incide sulla qualità del lavoro, non cambia la condizione di chi è sotto le soglie di capienza fiscale, non tocca i settori in cui il salario medio è fermo da vent’anni. Per milioni di persone, soprattutto nel Sud e tra le donne, il beneficio non raggiunge la soglia necessaria a modificare la propria posizione economica.
Il quadro che emerge dal lavoro di Ruffino è chiaro: l’Italia non ha un problema di occupazione, ha un problema di salari. La propaganda governativa preferisce concentrarsi sul netto in busta, evitando il confronto con la struttura reale delle retribuzioni. Dentro quel silenzio ci sono i 24 mila euro medi, la metà delle lavoratrici intrappolate nel part-time, le retribuzioni minime del turismo, il divario crescente tra Nord e Sud. Una politica salariale che si regge sui bonus non affronta nulla di questo. Ed è lì che si misura la distanza tra il racconto ufficiale e il Paese.