La Sveglia

Se lo dice Tel Aviv, possiamo dirlo pure noi

Ora iniziano a dirlo anche in Israele e allora possiamo iniziare a dirlo anche noi: il genocidio a Gaza non è più un tabù.

Se lo dice Tel Aviv, possiamo dirlo pure noi

C’è un momento in cui le parole rompono gli argini, sfondano i tabù e ridisegnano il dicibile. In Israele, quel momento sembra essere arrivato. Elana Sztokman, scrittrice americana che vive a Gerusalemme da trent’anni, l’ha chiamato col suo nome: genocidio. “Stiamo bombardando e affamando un popolo fino alla morte. È genocidio. È uccisione deliberata, senza freni”, ha scritto. Una dichiarazione che le è costata amicizie, insulti, accuse di tradimento. Ma non è più sola.

Anche l’ex vicecapo dell’esercito, Yair Golan, ha detto l’indicibile: “Uno Stato sano non uccide civili come passatempo, non affama bambini, non espelle intere popolazioni.” E il soldato Itamar Schwartz, dopo aver combattuto a Gaza, ha scritto: “Non servono camere a gas per parlare di genocidio. Lo stiamo facendo. Punto.” Voci sempre più autorevoli si spingono a denunciare ciò che un tempo sembrava blasfemo dire, persino nella sinistra israeliana: che Israele, nel tentativo dichiarato di annientare Hamas, sta attuando un piano sistemico di distruzione e deportazione ai danni di un intero popolo.

E in Italia? In Italia si balbetta. Si evocano “errori”, si deprecano “eccessi”, si condannano le violenze “da entrambe le parti”. I politici si trincerano dietro il diritto alla difesa, i giornali evitano il termine, come se fosse una bomba semantica da disinnescare. Si è più preoccupati delle reazioni di Israele che della sorte dei bambini palestinesi ridotti alla fame. Anche davanti alla denuncia della fame come arma di guerra, l’Italia abbassa lo sguardo. Mentre i rabbini americani come Rick Jacobs e Stephanie Kolin parlano apertamente di “crudeltà calcolata” e “tragedia umanitaria”, qui si continua con la danza dell’equidistanza morale.