Alla fine, lo hanno detto chiaro: “Si apre una nuova fase”. Dopo aver raggiunto l’obiettivo del 2% – che è “solo il primo passo” – ora si punta al 5% del Pil in spese per la difesa. “Preferisco però parlare di sicurezza, perché la sicurezza non è solo armi: è la protezione di ogni cittadino europeo, di ogni cittadino italiano”, ha annunciato il ministro degli Esteri da Antalya, a margine del vertice Nato, infilando nella frase la consueta rassicurazione per il pubblico di casa: “Bisogna spiegarlo ai cittadini”. Ma cosa c’è da spiegare, esattamente? Che l’Italia si prepara a triplicare la spesa militare – fino a 110 miliardi di euro – nel silenzio del Parlamento e nell’assenza di un vero dibattito pubblico? Che questo avverrebbe su richiesta di Washington, e non per una scelta strategica autonoma?
Il ministro ha specificato: il 5% si dividerebbe tra un 3% per la “spesa militare classica” e un 2% per la “sicurezza”. È la nuova retorica: non si parla più di armi e carri armati, ma di una “sicurezza più ampia”, che comprende infrastrutture a uso duale, cybersecurity, perfino porti e strade. Un’operazione semantica studiata a tavolino per diluire il concetto di militarizzazione e renderlo più accettabile. Ma nella sostanza, si tratta di soldi pubblici da sottrarre ad altro.
Il maquillage del 2% e l’illusione del 5%
Secondo l’Osservatorio Mil€x, la spesa italiana per la difesa nel 2025 è già salita a 45 miliardi di euro, grazie anche ad operazioni contabili come l’inclusione dell’Arma dei Carabinieri e di fondi stanziati da altri ministeri. Il passaggio al 5% significherebbe stanziare fino a 70 miliardi in più, portando la spesa annuale oltre i 110 miliardi. Un’ipotesi che non ha alcun fondamento in una valutazione strategica, ma che risponde alle pressioni di Washington e agli interessi dell’industria bellica europea.
L’Italia, con un debito al 137% del Pil e una crescita prevista dello 0,6%, non ha margini per un’operazione simile. Lo scenario è chiaro: o si taglia la spesa sociale – scuola, sanità, welfare – o si fa esplodere il debito. La prima ipotesi distruggerebbe la coesione sociale, la seconda ci esporrebbe al rischio di nuove crisi finanziarie. La terza opzione, quella del maquillage della riclassificazione delle spese, è già in corso. Ma anche i giochi contabili hanno un limite.
Il ministro Crosetto lo aveva definito “un investimento per la libertà”, Giorgia Meloni lo ha presentato come “necessario”. Ma mai nessuno ha spiegato come si pagherà questo salto. Non lo ha fatto il Parlamento, a cui non è mai stata sottoposta una delibera formale, né lo hanno fatto i partiti di maggioranza. A oggi non esiste uno studio di impatto, né un piano dettagliato di copertura. Solo annunci, ripetuti nei consessi internazionali, e una retorica martellante sulla “sicurezza”.
La retorica della minaccia, il silenzio del Parlamento
Nel frattempo, le voci contrarie si moltiplicano. L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani avverte che già il 2% ha richiesto una forzatura dei conti. Il SIPRI osserva che i governi che danno priorità alla spesa militare lo fanno a scapito della spesa sociale. E studi come quelli citati da Mario Pianta mostrano che ogni miliardo investito in sanità o scuola genera fino a quattro volte più occupazione rispetto alla stessa cifra spesa in armamenti.
Eppure, a parte alcune campagne della società civile – Sbilanciamoci!, la Rete Pace e Disarmo – la politica tace. Una parte dell’opposizione balbetta, forse perché paralizzata dal riflesso condizionato dell’atlantismo bipartisan. Così il governo può continuare indisturbato a gonfiare la spesa militare in modo incrementale, a ogni vertice, a ogni occasione. Prima il 2%, poi via via più su fino al 5%. Senza mai fermarsi a discutere sul perché.
Si dirà che viviamo tempi difficili, che la guerra in Ucraina ha cambiato tutto. Ma la risposta non può essere cieca obbedienza alle pressioni degli alleati e assenza di visione strategica nazionale. Spiegatelo pure ai cittadini, se ne siete capaci. Ma non chiedete loro di applaudire mentre li spingete verso il baratro.