A Montecchio Precalcino, provincia di Vicenza, un diciannovenne si fa chiamare “Zeus”. Ha tatuaggi, profili social e una lista. Una lista “come quella di Turetta”: forbici, sacchi dell’immondizia, scotch, contanti. In calce, la dedica: «Turetta esempio modello». Lo scrive online pochi giorni prima di attirare la sua ex con una scusa: «sono scappato di casa per vederti». Lei ha diciannove anni, si era rifugiata da una parente a Mirano per non essere trovata. Ma lui la trova. La colpisce, la minaccia con un paio di forbici, le prende il telefono e la costringe a cancellare i contatti maschili. Poi scompare. Poi riappare. Minaccia anche la madre di lei: «Zeus viene ad ammazzarvi». Si filma sotto casa della ragazza. Viene arrestato. Dopo una notte in cella è già fuori. Obbligo di firma quattro volte a settimana. Per lui. Per lei: vigilanza attiva. Non può bastare per il divieto di avvicinamento. Serve un secondo episodio. È scritto così.
Ci si chiede a cosa servano le lacrime, i fiori, i proclami se il codice rosso funziona solo a sangue versato. Se un ragazzo che pubblica un’imitazione puntuale di un femminicidio può ancora essere considerato solo un “ragazzino disturbato”. Se le parole sono sempre “scherzi”, le botte “una scivolata”, le forbici “un oggetto potenzialmente pericoloso”.
Ma il punto è che non è pazzo, non è solo. È il risultato di una cultura che ha già archiviato Giulia, che usa Turetta come un meme, che allena ragazzi a considerare la violenza una prova d’amore. Un gioco da uomini.
E finché il primo episodio sarà solo un preallarme, ci sarà sempre qualcuno pronto a testare il secondo.