Un inferno chiamato Iraq

Dalla Redazione

L’Iraq ormai è un inferno. Come uno sciame di cavallatte i jihadisti avanzano nel paese distruggendo tutto quello che incontrano, specie se appartenente a religioni diverse da quella islamica. Una situazione esplosiva che ha costretto 100mila cristiani a fuggire dalle città del nord conquistate dalle milizie integraliste. Per il patriarca caldeo di Kirkuk, Luois Sako, si tratta di un “disastro umanitario”. I cristiani, ha raccontato la guida religiosa, “Sono fuggiti con nient’altro che i loro vestiti addosso, alcuni a piedi, per raggiungere la regione del Kurdistan”. Il tutto mentre i jihadisti distruggevano ogni simbolo della loro religione, togliendo croci dalle chiese e bruciando 1.500 manoscritti antichi.
E le città svuotate cadono una dopo l’altra sotto il controllo dei miliziani, che allargano la loro sfera d’influenza con il rischio che il paese, in poco tempo, possa trovarsi spaccato a metà.

Sul dramma degli esuli cristiani è intervenuto anche papa Francesco, che ha rivolto il suo appello alla comunità internazionale perché ponga “fine al dramma umanitario in atto e perché si adoperi a proteggere i minacciati dalla violenza e assicurare aiuti agli sfollati”. Bergoglio ha anche richiamato la “coscienza di tutti” e alla preghiera di tutti i cristiani e le Chiese. L’appello di papa Francesco, letto dal portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha rilanciato anche l’appello del Ponetfice pronunciato all’Angelus dello scorso 20 luglio. Oggi, “alla luce degli angosciosi eventi”, che “interessano popolazioni inermi”, il Papa si unisce agli appelli dei vescovi e si rivolge alle comunità cristiane, alla comunità internazionale e “alla coscienza di tutti”.

Sulla stessa linea del papa anche il cardinale Fernando Filoni: «I cristiani hanno dovuto abbandonare tutto, persino le scarpe, e scalzi sono stati instradati a forza verso l’area del Kurdistan -ha spiegato il Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popol- La situazione dei cristiani cacciati è disperata perché ad Arbil, la capitale del Kurdistan iracheno, non sono intenzionati ad accoglierli perché non sanno come ospitare queste migliaia di persone».