Una vergogna senza limiti

Di Lucia Sgueglia per La Stampa

Dopo quattro giorni finalmente sottratti alla feroce calura della pianura ucraina, le vittime del Boeing malese ora sono ammassati nei vagoni frigoriferi di un treno alla stazione di Torez, 15 chilometri dallo schianto. Li hanno prelevati nella notte con barelle rimaste macchiate di sangue, e caricati su vecchi camion sovietici Zil. Centonovantasei cadaveri avvolti nelle «bodybag» nere contrassegnate da numeri, secondo le cifre fornite dai ribelli all’Osce, mentre il conto dei morti rinvenuti sale a 223.

E sono, lì, allineati accanto ai binari. Quasi ostaggi in attesa che il gioco politico mondiale nato intorno alla loro tragedia si sciolga. Le famiglie aspettano sgomente, e l’orrore si aggiunge all’orrore.

«Non siamo noi a trattenerli, è Kiev che non fa venire qui gli esperti internazionali», accusa Alexander Borodai, «premier» ribelle in conferenza stampa a Donetsk. Rifiuta le accuse di mancanza di umanità: «Li abbiamo trasferiti in segno di rispetto per le famiglie. Non potevamo aspettare più a lungo a causa del caldo e anche perché ci sono molti cani e animali selvatici nella zona».

Ma, contrariamente alle voci di un accordo con Kiev per trasportarli fuori dalla regione, per ora «restano dove sono, fino all’arrivo degli esperti internazionali. Li aspettiamo con ansia, da giorni», dice. «Anzi, siamo stufi di aspettarli, quanto ci mettono? Mica siamo al Polo nord, da Kiev qui si arriva in poche ore, volendo», dando la sensazione di volersi disfare di un fardello. Kiev replica: «Non possiamo garantire la sicurezza degli esperti stranieri in un territorio controllato dai miliziani. Perciò ogni Paese dovrebbe decidere individualmente». Ma nessuno degli Stati coinvolti avrebbe contatti diretti coi ribelli.

E dopo aver negato per giorni, i filorussi annunciano di aver trovato anche le scatole nere dell’aereo. O qualcosa che vi somiglia: «Sono alcuni elementi tecnici, presumibilmente le scatole nere, ora si trovano qui a Donetsk, sotto il nostro controllo, in un luogo sicuro». Ma ignoto. Le consegneranno non a Kiev, ma agli esperti dell’«aviazione civile internazionale». Di che colore sono? «Be’, nere no?», si impappina. Kiev, incalza, non rispetta la tregua, in cambio della consegna dei corpi i ribelli un «cessate il fuoco umanitario» – a loro dire da 3 giorni il governo ucraino per via ufficiale o ufficiosa lo rifiuta: «Non dite che siamo selvaggi».

Nel frattempo sul luogo del disastro, la protezione civile ucraina continua a lavorare per recuperare i resti degli altri corpi tra i detriti, un compito arduo, cui si aggiunge una guerra di propaganda che è parte integrante di questa tragedia. Kiev, che aveva denunciato il «sequestro» di 38 vittime da parte dei miliziani, ora ammette che sul treno-frigo ci sono «probabilmente» anche quelli.

Dove li spediranno, e quando? A Donetsk, o forse a Kharkiv, a nordest, rimasta fedele a Kiev: qui fu portato anche il corpo del fotografo italiano Alexander Borodai, ucciso a Slaviansk a fine maggio.

In cerca di lumi, facciamo visita all’obitorio centrale. Pessima idea. Due giovanissimi miliziani armati a vedetta sull’uscio ci bloccano e ci fanno «accomodare» su un’auto con altri due che imbracciano kalashnikov: «Siete in arresto». Senza spiegazioni né dettagli.

La meta è una zona defilata in periferia. La ex sede dell’Sbu, i servizi segreti ucraini – è qui che ora si tirano le fila della lotta contro Kiev nell’Est. Un vasto territorio trasformato in fortino inaccessibile: vi si accede da una ex filiale dell’Unicredit Bank, tappezzata da un muro di 10 piani di sacchi di sabbia. I ribelli sono stati accusati di svaligiare banche, negozi e gioiellerie locali per «autofinanziarsi». Barricate e check point ovunque. Nel cortile, finestre «murate» da altri sacchi di sabbia.

Fino a poco fa ci stava il Battaglione Vostok, ora è la base degli «uomini di Strelkov», il sedicente comandante in capo delle truppe ribelli, moscovita ed ex veterano di Cecenia, l’uomo verso cui Kiev punta il dito come responsabile diretto dell’abbattimento dell’MH17. Che ha varato la legge marziale in città, e avrebbe personalmente «giustiziato» due civili per furto, secondo una vecchia legge dell’era Stalin. Sono i miliziani più «duri» fuggiti da Slaviansk dopo la presa della cittadina da parte di Kiev.

L’interrogatorio è tra le aiuole. Vi passeggiano decine di armati in mimetica, sul braccio il simbolo della «NovoRossija». Uno porta sulle spalle una bambina biondissima scalza, per mano una ragazza in giacca mimetica e ciabatte. Non si fidano di nessuno. I giornalisti occidentali? «Un gruppo criminale organizzato». Lo scontro con Kiev, l’abbattimento del Boeing? «Una guerra americana».

Quasi tutti, come Denis e Lesha, hanno perduto un parente nell’assedio: «Kiev uccide anche i bambini, sono mostri». Hanno evacuato famiglie e figli a Rostov, in Russia. «Quando li rivedremo? Questa guerra può durare altri 3 anni». Un tizio alto e barbuto rotea un coltellaccio. Altri giornalisti inglesi e americani portati dentro per l’interrogatorio raccontano di aver visto 50-60 persone agli arresti da giorni: uno, forse un militare ucraino, sui 30, aveva «il volto tumefatto». Ostaggi?

Segno di un’atmosfera sempre più tesa in città. I separatisti temono un attacco imminente delle truppe ucraine – forse appena «risolta» la faccenda del Boeing. E si preparano alla battaglia. Mentre il loro supporto popolare si riduce. Su Internet gira un video in cui Pavel Gubarev, altro leader separatista, è apostrofato da una donna: «Per favore, fate il primo passo, andate via, liberate la città, vogliamo la pace». «Non possiamo, mi dispiace». «Allora dobbiamo morire con voi? Perché fate questo al popolo?».