Studenti iraniani, visti di studio bloccati: il governo smentisce le sue promesse umanitarie

ll Tribunale di Torino ha ordinato alla Farnesina di fissare entro il 30 novembre gli appuntamenti per l’esame dei visti di studio

Studenti iraniani, visti di studio bloccati: il governo smentisce le sue promesse umanitarie

Il 7 novembre il Tribunale di Torino ha ordinato al Ministero degli Esteri e all’Ambasciata italiana a Teheran di fissare entro il 30 novembre gli appuntamenti per l’esame dei visti di studio degli studenti iraniani. Una decisione che fotografa il rovescio di un racconto politico: quello di un governo che, tra conferenze stampa e comunicati, continua a definirsi «umanitario» e «amico della libertà», ma che nei fatti ha trasformato l’accesso agli studi in un privilegio riservato a chi riesce a sopravvivere alla burocrazia.

Le promesse erano state solenni. Nell’agosto 2024 Giorgia Meloni assicurava che «l’Italia sarà al fianco della popolazione iraniana» e che avrebbe «rafforzato la cooperazione umanitaria e culturale». Antonio Tajani, a gennaio 2025, rivendicava i «canali aperti con l’Iran», descrivendoli come «decisivi per la stabilità e il dialogo». Persino nei programmi di governo la coalizione parlava di promozione della “libertà di studio” e di una “rete diplomatica capace di attrarre talenti internazionali”. Tutto scritto, tutto disatteso.

Promesse di aiuto, porte sbarrate

Mentre la premier moltiplicava i richiami alla «comunità internazionale», la stessa Farnesina chiudeva le prenotazioni per i visti di studio sei giorni dopo averle aperte. Il 2 maggio 2025 il portale consolare ha accolto le richieste, poi la serranda è calata lasciando fuori centinaia di studenti ammessi dalle università italiane. L’anno accademico è iniziato senza di loro. A salvarli è stato il ricorso promosso da Asgi e da uno studente iraniano: il giudice ha parlato di «prassi illegittima» e imposto lo sblocco immediato del calendario.

La decisione non riguarda solo Teheran. Rivela l’ipocrisia di un Paese che sbandiera la solidarietà internazionale ma non riesce neppure a gestire un’agenda consolare. Ogni anno oltre tremila iraniani vengono ammessi negli atenei italiani, e la comunità studentesca supera le tredicimila unità. Si tratta di una risorsa accademica e scientifica cruciale in un Paese penultimo in Europa per quota di laureati. Eppure, invece di agevolare il percorso, lo Stato erige barriere digitali, scadenze arbitrarie e silenzi amministrativi.

L’umanitarismo di facciata

La Farnesina parla di «procedure di sicurezza». Ma dietro i proclami sulla difesa dei diritti, l’Italia riproduce la stessa logica del sospetto che domina le sue politiche migratorie. Gli studenti iraniani, selezionati e già ammessi dagli atenei, sono trattati come un rischio da contenere, non come risorsa da valorizzare. Il risultato è un danno collettivo: posti vacanti, tasse universitarie perdute, e una reputazione accademica che si presenta al mondo con l’immagine di una porta chiusa.

Asgi ha ricordato che l’inottemperanza a un ordine del giudice può costituire illecito penale. E ha chiesto al Ministero un adempimento rapido, per «ripristinare i diritti e salvare l’anno accademico». Intanto decine di studenti stanno cercando di prenotare i nuovi appuntamenti: è una corsa contro il tempo e contro l’indifferenza di chi governa.

Il caso dei visti iraniani è un test di credibilità per il governo Meloni. Se la solidarietà vale solo davanti alle telecamere, diventa retorica diplomatica. Se la cooperazione si traduce in slot chiusi e attese infinite, la “nazione umanitaria” esiste solo nei comunicati. L’Italia che promette aiuto all’Iran non è quella dei discorsi ufficiali: è quella che deve essere richiamata da un tribunale per ricordarle che il diritto allo studio non si sospende per disorganizzazione consolare.

E mentre la premier insiste sul «modello italiano di aiuto e di accoglienza», gli studenti iraniani vivono un’attesa che si misura in mesi e speranze perdute. È la distanza tra la propaganda e la realtà: da un lato i proclami sulla “cultura come ponte”, dall’altro il silenzio di un Paese che lascia chi vuole studiare alla porta di un consolato chiuso. Un Paese che si proclama difensore della libertà, ma che finisce ogni volta per inciampare nella propria zavorra amministrativa.