Nel cuore di Napoli, l’altra faccia dell’illegalità

di Antonio Siragusa

Si fa fatica a pensare che per secoli abbia regnato il silenzio in questo rione. Prima i greci, dal III-IV secolo a. C., poi i cristiani scelsero la Sanità come luogo per la sepoltura dei morti. La roccia di tufo e la vicinanza con la città greco-romana, infatti, si prestavano allo scavo e alla costruzione di una necropoli. Oggi il rione è un viavai di gente e motorini. Sembra la medina di una città araba per i negozi e le bancarelle di ogni tipo, per le strade strette in cui il sole non penetra mai, mentre ricorda un quartiere di periferia di una grande metropoli per le persone di ogni razza e provenienza che si incontrano.
Qui la vita ruota intorno al lavoro e al bisogno di guadagnarsi la giornata. Arrivando da via Foria e lasciandosi alle spalle il centro storico, si entra subito nel cuore pulsante del rione: il mercato. Aperto dall’alba al tramonto, è un’esplosione di voci e colori. Vincenzo Moccia è un vecchio urlatore che invita i clienti a comprare mandarini e insalata alla bottega in cui lavorano i suoi figli, terza generazione di fruttivendoli. Cappellino e benda sull’occhio sinistro, sta sulla porta della bottega e utilizza il diaframma come un cantaor flamenco. Gli si gonfia anche una vena sul collo quando emette i suoni. Quello che dice è incomprensibile per chi non è del rione, ma sembra avere grande successo perché decine di persone si fermano a comprare la frutta e gli ortaggi. A gestire l’attività, ora che lui è anziano, sono i figli ma lui continua a dare il suo contributo da urlatore.
In ogni vicolo della Sanità c’è una fabbrica diffusa, in nero ma alla luce del sole. Piccole stanze, scantinati, “bassi” dove si fabbricano tacchi, scarpe, guanti, borse e cinture, che finiscono spesso nei grandi negozi alla moda di Parigi, Milano, o degli Stati Uniti. Ognuna può ospitare fino a 15 operai-artigiani, in gran parte donne. Si lamentano della concorrenza dei cinesi, soprattutto nel settore delle scarpe, perché devono adeguarsi ai loro prezzi per non chiudere.
Raffaelina e Lucia sono amiche e lavorano in due “bassi” di via Fontanelle in cui si fabbricano scarpe. Se una non riceve commissioni, l’altra la chiama a lavorare. Amicizia e solidarietà vengono prima di profitto e concorrenza in questo rione. Un modello produttivo sempre più raro, ma che qui sopravvive. L’altra faccia della medaglia dell’illegalità.
«Il lavoro nero è la regola nel quartiere» spiega il consigliere di municipalità Francesco Ruotolo. «I controlli sono inesistenti e tutto questo apparato produttivo si regge sulla non legalizzazione. Se le paghe fossero sindacali e se l’imprenditore pagasse le imposte, salterebbero i profitti e l’occupazione. Esiste, perciò, un tacito accordo tra sindacati, che qui non esistono, e artigiani, che sanno che la contrattualizzazione sarebbe la fine del loro lavoro». Ogni famiglia è un apparato produttivo che produce tanti piccoli redditi. Come dice Ruotolo «c’è la pensione sociale dell’anziano, l’accompagnamento di invalidità del nonno sulla sedia a rotelle, i 500 euro al mese del lavoro nero nel settore dell’abbigliamento, il padre che fa il venditore ambulante, la figlia che fa la baby sitter. Quando questi redditi o parte di essi vengono a mancare, ecco che la camorra diventa una facile alternativa col traffico di droga e l’illegalità violenta, delinquenziale, omicida. Perciò il lavoro nero è il male minore».

Le eccezioni ci sono
Camminando nel rione, si possono però trovare anche esempi di legalità e di eccellenza del lavoro, come Omega, una delle fabbriche del guanto più importanti d’Europa, in via Stella. Nata più di 100 anni fa, è gestita ora da Mauro Squillace, imprenditore napoletano che l’ ha ereditata dal nonno e poi dal padre. Vende 60 mila paia di guanti all’anno e non risente affatto della crisi. «C’è bisogno di passione per fare questo mestiere, altrimenti non vale neanche la pena iniziare» dice. Per togliere manodopera alla camorra, invita i ragazzi della Sanità a fare apprendistato nella sua fabbrica. «Il parroco di santa Maria alla Sanità, padre Antonio Loffredo, è un mio amico e manda qui i suoi ragazzi a imparare l’arte del guanto. Io offro lavoro soprattutto a persone che vivono nel quartiere. Per questo mi rispettano tutti, anche i camorristi. So benissimo che c’è la camorra qua: nel post-terremoto del 1980 vennero a chiedermi una percentuale sui lavori di ristrutturazione del palazzo, ma io li mandai a quel paese». All’inizio poco apprezzato dai francesi, che negli anni ’70 gli chiudevano le porte in faccia perché giovane e napoletano, Squillace ha trasformato la sua napoletanità in un punto di forza: «La furbizia napoletana è un valore aggiunto se usato positivamente, per risolvere i problemi. Se uno vuole essere furbo solo per essere furbo, lo fa una volta il commercio, poi si brucia completamente. Noi diamo un servizio prima, durante e dopo la vendita».
Il suo guanto entra ed esce dall’azienda una ventina di volte prima di essere pronto. Tutti i passaggi, dal taglio alla definizione, sono fatti a domicilio, come da tradizione napoletana. «Mi riempie di orgoglio sentir dire a uno straniero che la visita alla fabbrica è stata più interessante di quelle a chiese e musei. Una volta un canadese, dopo aver comprato un paio di guanti, mi ha detto: “Io non sto comprando un guanto, ma la storia di Napoli”».
La storia di Squillace è un’eccezione in un rione in cui la crisi economica e l’arrivo di manodopera straniera hanno portato alla chiusura di botteghe e aziende. Così molti si sono ritrovati senza lavoro.
Salvatore Catapano lavorava come decoratore di bomboniere in una fabbrica. Ha perso il posto perché l’azienda ha chiuso e ha deciso di aprire assieme alla moglie un negozio di bomboniere in via Macedonio Melloni. In parte con le proprie forze, in parte grazie a un sistema di microcredito, presente nel rione, che aiuta a finanziare le piccole attività commerciali. Un sistema che in Italia esiste dal 2006 e a Napoli è promosso da una rete di associazioni chiamata Rete Sanità e coordinata dal missionario comboniano Alex Zanotelli. Salvatore e la moglie hanno così ottenuto un finanziamento di 12 mila euro da Banca Popolare Etica. A interessi dell’1% e rimborsabili in sette anni. Una sorta di prestito d’onore. «E’ stato un aiuto prezioso dopo aver avviato l’attività con le nostre forze. Mia moglie ha pianto per due ore quando ci hanno comunicato di aver ottenuto il finanziamento. Ci ha dato la possibilità di acquistare tutto il materiale per l’ultimo Natale».

Chi sa reinventarsi
Di fronte alle difficoltà economiche, legate anche alla crisi, c’è chi ha saputo sfruttare il proprio talento “inventandosi” un secondo lavoro. Vittoria Di Giovanniniello, madre di quattro bambini, fa la collaboratrice domestica, ma ha scoperto di avere anche un talento per la fotografia. Ha un piccolo studio al Supportico Lopez, messole a disposizione da una rete di associazioni della Sanità. «Ormai non posso più separarmi dalla macchina fotografica, ce l’ho sempre con me. Mi chiamano spesso per lavorare alle comunioni, ai compleanni e ai battesimi. E quest’anno vorrei anche dedicarmi ai matrimoni, ma non so se sono pronta. Ho ancora tanto da imparare».
Eppure Vittoria continua a fare quello che ha sempre fatto da quando, giovanissima, è diventata madre per la prima volta. «Non posso permettermi di fare solo la fotografa, non guadagno abbastanza. Continuo a fare anche la donna delle pulizie: il lavoro nobilita l’uomo e non mi sono affatto montata la testa per il talento artistico che ho scoperto di avere».

Sguardi sul quartiere
Antonio Caiafa è un filmaker e gestisce un blog che è una voce del rione. Tra 2008 e 2009 i cittadini del rione hanno protestato contro la trasformazione del vecchio cinema del rione in supermercato e hanno occupato il parco san Gennaro e il cimitero delle Fontanelle per riappropriarsi degli spazi pubblici che erano loro negati. Allora Caiafa ha realizzato un documentario intitolato “I moti spontanei”.«Nel quartiere metterei un servizio di ordine pacifico» spiega. «Se c’è anarchia per le strade, è soltanto perché non ci sono controlli. E poi il problema è che la regola non la conosce neanche chi dovrebbe insegnarla».
Via dei Cristallini si trova nella zona più povera del quartiere, a due passi dal mercato dei Vergini. Proprio qui, in uno splendido palazzo storico al civico 138, Davide ha aperto una decina di anni fa un bed and breakfast di lusso. Per lui, che di lavoro ha sempre fatto l’architetto di interni, è stato un ritorno a Napoli dopo aver vissuto a lungo in un quartiere borghese di Parigi. Voleva ritrovare una vita semplice e rilassata, a contatto col popolo. Un piccolo paradiso dove poter coltivare i suoi interessi. Così ha convinto due amici, Pierre e Ken, a trasferirsi a Napoli dalla Francia e dalla Scozia e ad avviare con lui questa attività. Da loro arrivano soprattutto turisti francesi e artisti, mentre gli italiani non sono molto graditi «perché non capiscono che questo è un quartiere originale, come il bronx a New York».
Attorno alla parrocchia di santa Maria della Sanità sono nate cooperative e associazioni di giovani finanziate da privati e fondazioni, soprattutto grazie all’impegno di padre Antonio Loffredo. Dal suo ‘osservatorio’ speciale sul quartiere, racconta come ha aiutato i ragazzi nella realizzazione dei loro progetti e iniziative. «Per prima cosa li abbiamo fatti viaggiare perché questo è un ghetto per come è stato concepito dal punto di vista urbanistico e i giovani hanno bisogno di aprire la mente. Poi sono nate tante realtà interessanti in ambito culturale, come l’orchestra dei bambini, il teatro, l’officina dei talenti del restauro, i doposcuola».

Il rapporto con la morte
Susy Galeone fa parte della cooperativa “La paranza” e lavora come guida turistica nelle catacombe che attraversano il rione: san Gennaro e san Gaudioso. E’ una dei tanti giovani che, grazie alla parrocchia, è riuscita ad avere un impiego a tempo indeterminato. «Il rapporto del rione con la morte è millenario e ancora oggi si respira nell’aria» racconta.
Anche il missionario comboniano Alex Zanotelli lavora in questo rione da sette anni e coordina la rete di associazioni della Sanità. Per lui, la camorra ha perso molta della sua forza nel rione. Pochi sono i negozianti che pagano il pizzo, ma «quello che preoccupa di più è la mentalità mafiosa, il fatto di far finta di niente».
La Sanità è un ghetto dalla fine del Settecento, quando fu costruito il ponte che isolò per sempre il quartiere. «Non c’è dialogo tra il rione e il resto della città. Ci sono due città che non vogliono parlarsi: un muro che potrebbe creare futuri conflitti se non viene abbattuto». «Eppure – aggiunge – vedo poveri che aiutano i più poveri e tante associazioni che lavorano insieme per migliorare le cose».
Per Zanotelli il rione ha un passato straordinario ed è da queste radici che bisogna partire per guardare al futuro. «Scampia è un posto spaventoso, da abbattere e ricostruire, senza storia né radici, dove ci si sente totalmente isolati. Qui almeno si è in mezzo a gente orgogliosa della sua storia».