Prima confisca poi giudica. A Roma la giustizia creativa

di Martino Villosio

Dopo quelli nei confronti del costruttore Bellavista Caltagirone, dell’ex Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici Angelo Balducci e di Lady Asl, la Procura di Roma ottiene un altro maxi sequestro a scopo di confisca dei beni ai sensi del decreto legislativo 159 del 2011, l’arma fornita dal legislatore alle procure per aggredire i patrimoni accumulati illecitamente (in base alle accuse) e per “sigillarli” nella disponibilità dello Stato anche a prescindere dall’eventuale prescrizione dei paralleli processi penali. È la nuova linea (sicuramente discutibile se applicata in casi controversi e nei confronti di aziende che hanno il diritto di difendersi in tutte le sedi previste dalla legge) impressa con decisione dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, che ieri ha portato al blocco di beni mobili e immobili, per un valore che supera i 65 milioni di euro, nelle disponibilità di una nota famiglia di imprenditori campani in rapporti più che stretti con il clan camorrista dei Mallardo.

Da Fondi a Ferrara
Un provvedimento richiesto dalla Dda di Roma e accolto dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Latina, che interviene su immobili, alberghi, ristoranti, concessionari di autoveicoli e società distribuiti in varie provincie e regioni. I sigilli colpiscono patrimonio e attività dei fratelli Domenico e Giovanni Dell’Aquila, vicini al clan Mallardo a sua volta alleato al clan dei Casalesi, oltre a quelli di Vittorio Emanuele Dell’Aquila (figlio di Giovanni) e del fiduciario della famiglia Salvatore Cicarelli. Gli ultimi due sono accusati di aver costituito la cellula economica attraverso cui il clan Mallardo ha realizzato la sua penetrazione nel tessuto imprenditoriale del basso Lazio. Una cavalcata, quella dei Dell’Aquila, che per gli inquirenti è stata sostenuta e alimentata dai rapporti di reciproco vantaggio con i Mallardo fino a sconfinare nel territorio di Latina e a insinuarsi nell’economia emiliana.

Fifty-fifty con la camorra

I capitali provenienti da estorsione e traffico di sostanze stupefacenti accumulati in Campania, grazie a un controllo asfissiante del territorio, sarebbero stati reinvestiti nelle più svariate società, dal settore costruzioni a quello delle intermediazioni immobiliari, dal commercio di porcellana, dal settore alberghiero a quello della ristorazione. Fondamentale in questo senso la ricostruzione del meccanismo fornita un pentito di camorra: fuori dalla Campania, invece di chiedere il pizzo, venivano individuate attività con una storia imprenditoriale alle spalle. Ai titolari veniva proposto di spartire gli utili al cinquanta per cento, in cambio dell’ingresso occulto del clan in società. I soldi, che spesso ridavano fiato ad aziende dal nome solido ma in crisi, venivano consegnati cash in apposite valigette. Nel basso Lazio la penetrazione mafiosa è avvenuta prevalentemente nella zona di Fondi, con l’investimento del denaro da riciclare in concessionarie di auto e moto. In Emilia, la regnatela camorrista ha invece infettato il settore dell’edilizia.
Il provvedimento di ieri scaturisce da indagini di polizia economico finanziaria, condotte dal Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza e avviate nel 2012. Per alcuni beni si “sovrappone” al sequestro di natura cautelare emesso nell’ambito dell’inchiesta penale che ha già portato nel 2011 al rinvio a giudizio di Domenico e Giovanni Dell’Aquila, entrambi attualmente in carcere, per vari reati tra cui l’associazione di stampo mafioso.

La ricetta del procuratore
È un doppio binario, insomma, quello su cui d’ora in avanti, e con sempre maggiore frequenza, correranno le indagini e i provvedimenti di sequestro della procura capitolina: da una parte l’indagine penale e l’eventuale processo nei confronti dell’imputato, dall’altra l’aggressione al patrimonio di quest’ultimo eseguita quando il Codice Antimafia lo consente e cioè sui soggetti che, per lungo tempo e con continuità, abbiano mantenuto un reddito incongruente rispetto a quello fotografato dalle dichiarazioni fiscali e siano qualificabili come “socialmente pericolosi”.