Servizio pubblico e canone Rai. Cosa ci insegna il resto del mondo. Dalle nomine ai programmi, è il solito coro di critiche. Segno che va ripensato il modello della Tv di Stato

In Nuova Zelanda i soldi dei cittadini vanno a tutte le emittenti con programmi di interesse pubblico

Se c’è una costante nel dibattito mediatico-politico nel nostro Paese è quella delle infinite polemiche sulla Rai (basta leggere i siti e i giornali in questi giorni). In realtà un po’ tutti (gli addetti ai lavori e non) si sentono in potere/dovere di esprimere giudizi perché “la Rai è servizio pubblico” e dunque tutti se ne sentono singolarmente e “pro-quota” responsabili/proprietari. Il concetto nodale che lega gli italiani alla Rai è difatti proprio quello del “servizio pubblico”; concetto tecnicamente e sostanzialmente difficile, ancor più problematico nel nostro mondo internettizzato che tende a metterne in discussione la stessa esistenza. Bisogna infatti chiedersi “a monte” se l’attuale contesto caratterizzato dall’esplosione della multicanalità e delle multipiattaforme, giustifichi ancora la necessità di un “servizio pubblico”.

In altre parole, la domanda per programmi che possano essere definiti di servizio pubblico può comunque essere soddisfatta dall’offerta autonoma di mercato attraverso centinaia di canali televisivi e attraverso l’interattività permessa da Internet senza bisogno di una (o più) emittenti ad hoc? Ad esempio l’esistenza di canali tematici facilmente accessibili per il teatro, lo sport, la scuola, la cucina, il meteo etc. può rendere superflua la necessità di un palinsesto specifico di un broadcaster “pubblico”? La risposta non è facile anche perché presuppone una definizione compiuta della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo che invece, come si è detto, è dal punto di vista giuridico, tra le più complesse e tormentate essendo variabile di epoca in epoca, da Paese a Paese.

Se un filo rosso si può trovare tra i diversi concetti e le diverse esperienze internazionali è che l’intervento dello Stato nel settore televisivo (come attore e non come mero regolatore) si giustifica con l’importanza attribuita al mezzo, alla sua influenza sui comportamenti politici e sociali nonché con l’opportunità di tutelare “le radici e le identità nazionali”. In questo senso mi sembra che le ragioni del servizio pubblico radiotelevisivo nel nostro Paese continuino pienamente a sussistere anche se è lecito interrogarsi, guardando al futuro, se lo strumento usato sinora (un solo broadcaster specializzato, finanziato in parte dal canone in parte dal mercato) sia quello più efficiente e utile.

A livello internazionale le soluzioni adottate sono essenzialmente tre: Paesi in cui esiste una sola Tv pubblica o con funzioni pubbliche (oltre l’Italia, l’Austria, la Svezia, la Finlandia, la Svizzera, il Portogallo, la Francia, il Regno Unito – seppur quest’ultimo con qualche distinguo); Paesi dove esistono più emittenti pubbliche (Belgio, Danimarca, Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Spagna, Australia, Usa); un servizio pubblico focalizzato sui programmi e non sull’emittente. È questo il caso della Nuova Zelanda dove pur esiste una TV di Stato ma che si finanzia in toto sul mercato con la pubblicità mentre il canone viene raccolto da strutture pubbliche che poi lo distribuiscono a chiunque faccia programmi di “servizio pubblico”. Un tema ulteriore e urticante è poi quello della natura del canone che attualmente nel nostro Paese si atteggia di fatto come una tassa specifica ad importo fisso, quindi oggettivamente regressiva e anche per questo, nonostante il suo importo modesto, tra le più invise dai cittadini.(L’autore è stato direttore generale della Rai)