C’è qualcosa di déjà vu nel nuovo piano israeliano per Gaza. E non è un’impressione: come documenta Amir Tibon su Haaretz, il progetto di Benjamin Netanyahu e Ron Dermer riprende passo dopo passo il manuale dell’Iraq post-invasione. Con la stessa arroganza coloniale, con le stesse promesse di “aiuti umanitari” blindati, con lo stesso vuoto politico riempito solo da filo spinato.
L’idea è semplice e devastante: creare una “zona umanitaria” nel sud della Striscia, gestita da aziende americane sotto il controllo dell’esercito israeliano, per concentrare lì due milioni di persone palestinesi. In cambio di cibo e assistenza, Israele punta a usarle come leva per rovesciare Hamas. Ma non ha uno straccio di piano per il dopo: né un’amministrazione palestinese alternativa, né un coinvolgimento arabo, né un ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese. Solo un “no” sistematico a ogni ipotesi che non sia l’occupazione permanente.
Chi ricorda l’Iraq del 2003 riconosce lo schema: contractor stranieri, controllo militare travestito da ricostruzione, separazione della popolazione dai “terroristi”. E come in Iraq, l’orizzonte è quello della guerra senza fine. Dermer e Netanyahu erano già allora tra i più entusiasti promotori dell’invasione americana: vent’anni dopo, sono ancora lì, a imporre esperimenti distruttivi su corpi altrui, con la benedizione di chi finge di non vedere.
L’umanitario diventa dispositivo militare, la ricostruzione si fa punizione. E chi dissente, chi denuncia, viene liquidato come nostalgico dei “neocon”. Ma è proprio da quel cimitero di ideologie che Netanyahu scava per rilanciare la sua guerra.