Davanti a un Senato al gran completo, Giorgia Meloni ha dipinto una realtà internazionale sterilizzata, dove i missili iraniani che colpiscono basi Usa sono “atti simbolici” e l’Italia può permettersi di restare in scena da attore “responsabile”. Nessun riferimento alla complessità dell’escalation, nessuna parola sui 60mila morti palestinesi, nessun bilancio umano. Solo equilibri strategici, come se la guerra fosse un affare di codici e conferenze stampa. Mentre Israele parlava già di “risposta forte” alla violazione della tregua da parte dell’Iran, la premier si diceva fiduciosa e intravedeva “divisioni a Teheran”, senza fornire prove, in una costruzione retorica che si fonda sull’illusione di controllo.
Due popoli, due Stati: il cerotto retorico
Sul dossier Gaza, Meloni ha evocato la formula diplomatica “due popoli, due Stati” e la necessità di un piano di ricostruzione guidato da “attori arabi”. Peccato che il suo governo continui a votare contro ogni risoluzione Onu che chieda il cessate il fuoco o condanni i crimini di guerra israeliani. L’export militare verso Tel Aviv non è mai stato messo in discussione, nemmeno dopo le stragi negli ospedali. L’equidistanza è solo mimetica, funzionale alla gestione dell’immagine, non alla risoluzione del conflitto.
“Si vis pacem”… secondo la Nato
Sul fronte interno, il cuore del discorso è un’operazione di maquillage. L’aumento delle spese militari al 5% del Pil viene venduto come “flessibile” e “sostenibile”, con una tempistica graduale e un rinvio al 2035. Peccato che Mark Rutte, segretario generale della Nato, abbia chiarito che non ci saranno “deroghe né accordi separati”. L’Italia si è legata mani e piedi a un obiettivo mostruoso: 100 miliardi in dieci anni, secondo le stime dell’opposizione.
Per schermarsi dalle critiche, ha rispolverato l’arma spuntata dell’accusa a Conte, accusandolo di non aver rispettato l’obiettivo del 2% firmato durante il suo governo. Peccato che quell’impegno fosse già in vigore dal 2014, e che la spesa militare sia aumentata proprio sotto Conte. Soprattutto, la premier omette la differenza macroscopica tra il 2% e il nuovo target del 5%, presentandoli come equivalenti. È una falsa equivalenza utile a disinnescare il dissenso, distorcendo i termini del confronto e mascherando la portata ideologica della svolta.
Europa, duplicazione e obbedienza
Meloni ha poi respinto l’idea di una difesa europea autonoma come “inutile duplicazione” della Nato. Un’affermazione che sembra neutra, ma è tutto fuorché tecnica. È una scelta politica netta: l’Italia si schiera contro l’autonomia strategica dell’Unione e preferisce ribadire il proprio ruolo subalterno nella catena atlantica di comando.
L’“Europa a guida francese” resta per Meloni un’anomalia da arginare, non un’opportunità da costruire. Il suo no a una difesa comune è un sì implicito al monopolio militare americano. Una fedeltà servile, nascosta dietro il paravento della “coesione”.
Le omissioni che contano
Il vero tratto distintivo del discorso non è solo ciò che Meloni ha detto. È ciò che ha scelto di non dire. Nessuna riflessione sul ruolo delle basi Usa in Italia nel conflitto mediorientale, nonostante i tracciamenti satellitari confermino l’utilizzo di Sigonella per i voli-spia P-8 Poseidon diretti a ridosso della Siria e del Libano. Nessun accenno al peso economico del riarmo sulle famiglie italiane, in un Paese in cui il 25% delle persone rinuncia alle cure mediche per ragioni economiche.
Nessuna valutazione sull’opportunità politica di farsi trainare da un Trump che ha definito “alleati ingrati” tutti i partner europei, Italia compresa. Il silenzio è una scelta. Omettere significa orientare. In questo caso, costruire l’idea di un’Italia determinante, quando la realtà è quella di un Paese che asseconda, subisce, spera di restare nella stanza dei grandi facendo finta di contare.
Comizio parlamentare
“Chi conta davvero lo diranno gli italiani”, dice Meloni per respingere le accuse dell’opposizione sull’irrilevanza italiana nei consessi europei: è l’emblema della sua strategia. Si rivolge direttamente al pubblico elettorale, non ai partner istituzionali. È un discorso da comizio, incastonato in una liturgia parlamentare.
Ma non basta la retorica identitaria per sopperire all’assenza di risultati. Le proposte italiane sul dossier Green Claims sono state ritirate. Il patto di stabilità è stato varato senza concessioni a Roma. I piani per la difesa comune ci vedono gregari. Anche l’appoggio alla candidatura di Ursula von der Leyen, smentito nei fatti, ha prodotto un isolamento crescente nel Ppe.
La risposta non è “lo diranno gli italiani”. La risposta è già scritta nei dossier diplomatici, nei vertici dove l’Italia prende atto, non decide. L’aula può applaudire, ma il mondo non si ferma a guardare.