I corpi arrivano prima delle parole. Aws Bani Harith, vent’anni, steso su un lettino con la pelle incisa come un terreno devastato: racconta la tortura dei coloni meglio di qualsiasi testimonianza. Jamal Shtiw, la testa bendata, ripete che erano più di trenta, armati di pietre, bastoni, spray, e che sua figlia urlava mentre gli incendiavano l’auto. Nour al-Din Dawood esce dal carcere irriconoscibile, un’ombra del ragazzo che era. In mezzo scorrono le raffiche dei droni su Gaza City est, quelle che nei video illuminano il buio come se cercassero di cancellarlo.
Intorno ai volti c’è la mappa della violenza: nella Cisgiordania di queste ore i coloni entrano nei villaggi a est di Ramallah, bruciano veicoli, lasciano scritte sui muri, attraversano le strade come pattuglie autonome. I numeri delle agenzie non hanno più nulla di astratto: cinque attacchi al giorno dall’inizio dell’anno, uliveti devastati, famiglie spinte via con la certezza dell’impunità. In quelle statistiche c’è Aws, c’è Jamal, c’è chi non ha una telecamera accanto.
E poi Gaza, dove i progetti sul “dopo” vengono annunciati mentre il “durante” non si arresta. La Casa Bianca parla di una nuova fase entro due settimane, un’architettura di sicurezza per la Gaza che verrà; intanto a Tuffah saltano case, a Maghazi si scava tra le macerie, a Khan Yunis continuano i colpi delle navi al largo. Le tregue future vivono separate dalle esplosioni presenti.
Sul confine nord UNIFIL denuncia tre nuovi attacchi israeliani in Libano, un’altra violazione della 1701. In Europa si discute di boicottaggi, presepi che mettono Gaza al centro, gesti che sembrano minuscoli mentre tutto continua a franare. Resta la distanza tra ciò che si annuncia e ciò che accade. La diplomazia scrive il futuro, i corpi raccontano il presente. E nessuno dei due coincide con la parola “pace”.