Avvolti nella spirale dell’odio. Così si alimentano gli estremismi. Parla la psicologa Parsi: “L’unica soluzione è la Cultura. Servono investimenti ingentissimi nell’istruzione”

Intervista alla psicologa Maria Rita Parsi

Prima l’agguato alle moschee in Nuova Zelanda, poi il sospetto caso di terrorismo in Olanda. Due episodi che se risultassero collegati non farebbero altro che riportare l’attenzione sulla cosiddetta spirale dell’odio che secondo la professoressa Maria Rita Parsi, sembra essere “alimentata dal timore dell’invasione da parte del diverso”.

Professoressa, cosa sta succedendo?
“È molto semplice. Gli esseri umani fanno fatica ad amare mentre non hanno difficoltà ad esprimere la ferita che sentono quando sono insoddisfatti. In questi casi odiano perché questo sentimento altro non è che una ricerca perversa di identità mediante la contrapposizione e la violenza. Nel caso della paura dell’immigrazione, di chi viene ad abitare nel tuo paese e ha etnia, tradizioni e religioni diverse, quando manca il principio dell’accoglienza a subentrare è la paura. E questa è più evidente nei periodo di grandi migrazioni, dove c’è chi si sente invaso e teme che chi arriva possa togliergli le risorse necessarie a mantenere la qualità di vita guadagnata con tanti sacrifici. Poi mi lasci dire una cosa”.

Certamente, dica pure.
“I suprematisti sono persone che a livello profondo sanno che il meticciato avanza e che all’origine dell’umanità non c’era la razza bianca. La difendono in tutti i modi perché inconsciamente la sentono fragile e avvertono il timore che possa esser cancellata dall’avanzare del cambiamento. Ma così non è”.

Quindi cosa dobbiamo aspettarci?
“L’odio è il rovesciamento dell’amore, fa sentire capaci di agire, di combattere e di non soccombere. Si tratta di un meccanismo difensivo che molto spesso diventa una manifestazione distruttiva del tipo: io morirò ma con me morirete tutti. Quando, invece, rimane nascosto e non sfocia in simili atti, scava i rapporti trovando espressione nella rabbia e nell’invidia, producendo una società scissa ossia incapace di tenere insieme le persone”.

Ci si può aspettare altri episodi simili?
“Purtroppo si perché quando una persona soffre, tende a manifestare distruttività. Il dolore fa scattare la rabbia, questa attiva il desiderio di punire chi si crede ci abbia fatto un torto e dopo scatta l’aggressione. È un circolo vizioso”.

Ma come se ne esce?
“È molto difficile. L’unico rimedio è la cultura. Bisogna dare strumenti alle persone sin da bambini, partendo dalla scuola e incentivando l’incontro con il diverso. Ma soprattutto bisogna puntare nell’istruzione orientando l’economia verso la costruzione e non più verso la distruzione. Basti pensare ai soldi spesi annualmente in armamenti dagli Stati. Sono cifre vergognose che se fossero impiegate diversamente, risolverebbero tutti i problemi del nostro pianeta”.

Il web è un’incubatrice d’odio o una valvola di sfogo?
“Il filmato di quel criminale, un malato di mente, mandato in onda mentre compiva la strage, assomiglia ad un videogioco di quelli usati dai bambini. Ciò è preoccupante perché per loro anche un’operazione di morte come quella in Nuova Zelanda, è un gioco. Un’assuefazione inaccettabile dettata dall’uso sconsiderato e irresponsabile del virtuale. E non si può pensare di risolvere tutto con l’ennesimo algoritmo che interviene dopo un evento tragico, si deve arrivare immediatamente. Sarò molto dura: non ci deve essere la possibilità che queste cose vengano diffuse sul web e nemmeno che certi giochi siano accessibili come succede oggi. Il web non è malvagio, lo è l’uso che se ne può fare. Del resto il mondo virtuale può diventare anche una valvola di sfogo ma è necessario regolamentarlo”.