Barracuda. Quello che le donne non dicono sulla maternità. Mamme scatenate sui social: #BastaTacere

Ecco cosa pensa Francesca Barra sulla campagna #BastaTacere

A chi infastidisce che un gruppo di madri sfati i tabù sulla gravidanza, denunci le mortificazioni subite durante i novi mesi o il parto? Raccontarsi con coraggio è un diritto e un dovere. Che tu sia un paziente o un medico, la verità non può che salvare vite. Per anni abbiamo subito un pensiero unico e imposto su: dolore, allattamento e perfino sulla depressione post partum. Trattato poco e male.

Chi non si è sentita inadeguata di fronte ad esternazioni come:“ l’hanno fatto tutte di partorire e con dolore. Tu perché richiedi un trattamento “privilegiato”? Allatta perché è un diritto, ma anche il dovere di una brava madre. Fa bene al bambino ed è un collante?”

Poco importa se il termometro del tuo corpo segnala un allarme, se hai dei limiti, se proprio non riesci a fare “come fanno le altre”. Quelle che stranamente ti vengono portate come esempio e appaiono felici, soddisfatte, in forma, lungimiranti su ogni tema.

La straordinarietà di una maternità deriva anche dal fatto che siamo esseri diversi. Siamo portatrici di vita, ma anche di esperienze soggettive.

Chi non ha incontrato ostilità nel proporre l’epidurale o nel chiedere assistenza se l’ospedale ti “consente” di portare il bambino da subito in stanza accanto al tuo letto? E’ possibile che sia una scelta e non un obbligo, anche se spacciato come opportunità o valore aggiunto?

E’ possibile che per una madre che ha appena partorito con un cesareo, magari dopo ore di travaglio, sia esausta e che non abbia il coraggio di ammetterlo?

Perché una madre deve vergognarsi di ammettere di avere delle difficoltà? Chi impone che una madre sia un supereroe?

Ho riflettuto prima di intervenire su una questione così delicata come la campagna #BastaTacere. Sono incinta del terzo figlio ed è fuori dubbio che ci si senta più esposti, vulnerabili e che si voglia solo sperare che tutto andrà per il meglio. Perfino dimenticare.

Ma non è così. Non si dimentica. Ed è giusto, sempre, parlarne. Io lo feci dopo il primo parto. Se non avessi incontrato un ginecologo straordinario che mi ha seguita negli ultimi mesi e una neurologa che solo anni dopo mi ha rimessa in piedi, oggi sarei una donna diversa. Terrorizzata, ancora ferita. Forse non avrei più partorito.

Anche i medici, le ostetriche, gli infermieri, hanno il diritto di raccontare cosa subiscono, certo. Spesso i pazienti o i loro parenti sono maleducati, insistenti, impazienti, violenti.

Ma oggi mi metto dalla parte del paziente, delle madri, di questa campagna. Oggi ricordo il mio vissuto. Le mie richieste di aiuto e sostegno inascoltate. Ricordo ogni singola parola che mi è stata detta anche se sono trascorsi dieci anni. Ricordo tante mortificazioni. Il dolore neurologico che mi ha perseguitata per anni. Sottovalutato e deriso.

Il parto successivo è stato diverso. Ho incontrato un medico che ha rispettato da subito la mia volontà su: allattamento, assistenza. E, soprattutto, avendo parlato, non ho mai più avuto paura di pretendere ascolto. E non ho mai, mai più permesso la frase: “Come fanno tutte.” Ecco perché questa campagna ha il diritto di esistere.

“Come fanno tutte” è un ricatto psicologico.

Le madri vanno ascoltate. Ciò che fanno è un miracolo di cristallo. Delicatissimo. Come tale va trattato.