“Ho pagato sempre per tutto quello che ho fatto, come fa qualsiasi altro brand. Smettiamola con la mistificazione dei luoghi della cultura”. È la risposta di Cristina Fogazzi, in arte l’Estetista Cinica, allo tsunami di critiche che le sono piombate addosso dopo aver organizzato il 14 giugno scorso una serata – trash – all’interno della Biblioteca Braidense.
Le immagini delle dieci influencer spagnole (la serata era dedicata al lancio del marchio VeraLab in Spagna e al primo anniversario della linea di make up Overskin) in posa per il selfie rigorosamente con “bocche a culo di gallina” davanti ai volumi antichi, fattorini in vespa che consegnavano le pizze nel cortile d’onore di Brera e tavole imbandite in sale dove i comuni mortali non possono né mangiare né bere (giustamente), hanno fatto scattare le (altrettanto giustissime) polemiche.
“Ma io ho pagato come gli altri brand” dice Fogazzi
Lei, Fogazzi, si è giustificata con la più milanese delle argomentazioni (ho pagato, ho potuto), tesi assolutamente in linea con la politica del modello-Milano ormai scricchiolante. Siccome ha sborsato 80mila euro più 15mila per le spese, allora vale tutto. Anche trasformare Brera in un localino di tendenza dei Navigli.
Anzi, ribaltando il tavolo, la Fogazzi si è anche assunta il merito di aver promosso la cultura italiana nel mondo: “C’erano dieci influencer spagnole molto grosse e così nelle loro stories hanno prima fatto un tour dentro Brera, facendo vedere la nostra Pinacoteca a milioni di persone in Spagna”, ha scritto in una storia social, evidentemente convinta che chi segue “grosse influencer” specializzate in rossetti e smalti, possa esser stato folgorato da Brera e abbia comprato subito un volo per Milano…
La versione del direttore di Brera, Crespi
Il punto però è la spiegazione fornita da Angelo Crespi, da dicembre nuovo direttore di Brera, fortemente voluto dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, dell’accaduto. “Quella degli eventi è una prassi che alla Pinacoteca esiste da 8 anni, dai tempi di Bradburne. All’estero è la norma. Tante richieste, potrei affittare le vendite ogni giorno”, ha detto Crespi al Corriere, quasi fosse il gestore di un Club Med.
Il direttore ha poi aggiunto rispetto alla cena che “non si è svolta nella sala principale, ma in una laterale, quella della lettura, frequentata al mattino dagli studenti. Ci sono libri antichi, ma non i più importanti, che sono nel caveau”. Come dire, le influencer spagnole non hanno mica sbriciolato sui codici medioevali… Bontà sua!
A sostegno della sua posizione, Crespi ha ricordato sia che a Parigi è fatto comune unire cultura e marketing, sia che i soldi “cinici” finiranno nelle casse del museo.
Serve un giusto compromesso
E il punto sta proprio qui: trovare un giusto (o quantomeno decente) equilibrio tra le indubbie esigenze di bilancio delle istituzioni culturali e lo svilimento della cultura nell’era delle influencer scosciate. A Palazzo Citterio, per esempio, da lunedìè aperta la mostra sugli abiti Swarovski, costo dell’“ospitata” nella futura sede di Brera Modern, 500mila euro, soldi che, a detta di Crespi, permetteranno di dotare “di vetri climatizzati tutte le opere più importanti che troveranno posto a Palazzo Citterio”.
Quella è un’iniziativa meritoria, sicuramente commerciale, ma in linea con la tradizione di Milano della moda e che, soprattutto, non invade di sgallettati luoghi deputati a conservare e produrre sapere.
Sala non commenta
“Ho già tanti problemi, non mi occupo dei problemi degli altri, questo ha a che fare con il ministero e con il sovrintendente, quindi lascio a loro”, ha commentato ieri il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il quale comunque ha tenuto a precisare come sia favorevole ad affittare i luoghi della cultura pubblici a privati. “Il punto non è tanto quello di svilire il luogo, ma c’è un problema di sicurezza e di coerenza con quello che è stato fatto – ha concluso Sala -. Io cerco di rispettare questa regola per il Comune, su Brera non so che dire”.
In realtà si potrebbe aggiungere che difficilmente la navata centrale del Duomo sarebbe affittata a una catena di fastfood per il lancio di un nuovo hamburger, con tanto friggitoria installate temporaneamente nell’abside… E che quindi non tutto è in vendita. E si potrebbe anche aggiungere che non tutto è permesso, perché i fondi alla cultura devono arrivare dalle tasse dei cittadini. Infine, si potrebbe sottolineare che quell’“Io ho pagato come tutti gli altri brand” non è affatto una giustificazione per un’azione abbastanza ingiustificabile. Semmai è un’aggravante…