Cartellino rosso della Cassazione. Moggi può scordarsi la Federcalcio. Dopo la radiazione l’ex dirigente presentò vari ricorsi. L’ultima chance resta ora la Corte di giustizia Ue

L’ex dirigente della Juventus Moggi non si arrende

Proprio non se la sentiva di lasciare il mondo del calcio. Ed è più che comprensibile dopo una vita passata ad osservare calciatori e a trattare per cessioni e acquisti. E così, dopo la batosta (per tutto il mondo del calcio giocato prima ancora che per lui) di Calciopoli, Luciano Moggi ha deciso di intraprendere una battaglia contro – a suo dire – le ingiuste sentenze piovutegli addosso. Tutto nasce dopo la condanna in via definitiva degli organi di giustizia sportiva che lo inibiscono per 5 anni dalla Figc con proposta di radiazione. Radiazione che arriva nel 2012 per effetto della decisione dell’Alta Corte Sportiva del Coni.

Un’ingiustizia per l’ex dirigente della Juventus, tanto che già allora impugnò quella decisione rivolgendosi al Tar. Da allora ne è nata una querelle interminabile, durata fino ad oggi con l’ultima e definitiva sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione. Dodici pagine in cui il concetto di fondo espresso dalla Corte presieduta da Roberta Vivaldi, è che il ricorso presentato da Luciano Moggi, in quella sede così come al Tar e così come al Consiglio di Stato, è semplicemente “inammissibile per difetto di giurisdizione”. Come a dire: il dirigente si è incaponito senza una ragione valida.

Ma partiamo da principio. L’inammissibilità del ricorso di Moggi era stato, come detto, espresso già dal Tar. Davanti a quell’affronto, però, l’ex dirigente aveva fatto ulteriore ricorso al Consiglio di Stato. In quell’occasione i giudici avevano ribadito il concetto: “l’impugnazione della sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Sportiva […] non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo”. Insomma, una cosa è l’ambito amministrativo, altro è l’ambito sportivo. Ma, a quanto pare, non per Moggi che non si è arreso e ha fatto ricorso pure in Cassazione, contestando essenzialmente due ragioni. “Secondo il ricorrente – ricostruiscono i giudici di Cassazione – il Consiglio di Stato avrebbe errato nell’escludere che le dimissioni volontarie dall’ordinamento sportivo non determinano la reviviscenza della giurisdizione demolitoria del giudice amministrativo”.

In altre parole, poiché Moggi si è dimesso dalla Figc prima dell’inizio del procedimento disciplinare, a suo dire avrebbe potuto adire la giustizia amministrativa e non più quella sportiva. Senza dimenticare che la radiazione toccherebbe, a detta di Moggi, i “diritti costituzionalmente garantiti”. Da qui l’illegittimità della sentenza del Consiglio di Stato che avrebbe anche omesso di pronunciarsi sull’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, come invece aveva chiesto Moggi, che a quanto pare voleva portare quest’ingiustizia finanche davanti al tribunale del Lussemburgo.

Motivi più che validi, secondo Moggi, per ricorrere pure in Cassazione. Peccato, però, che già il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. E per le stesse ragioni espresse sia dal Tribunale amministrativo del Lazio che dal Consiglio di Stato: “si sollecita a queste Sezioni Unite un sindacato sulla decisione del Consiglio di Stato qui impugnata che trascende dalle prerogative” della Cassazione stessa, per quanto prevede la Costituzione. Insomma, l’ultimo strenuo tentativo di rientrare nel mondo del calcio si è chiuso per Moggi con un nulla di fatto. E col pagamento delle spese processuali per i due controricorrenti, Coni e Figc: 7.500 euro ciascuno. Un autogol piuttosto esoso.