Entra in ospedale e poi prega

Di Antonello Caporale per Il Fatto Quotidiano

“Ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona… sono responsabile della morte di quella persona… dovrei andare ad autodenunciarmi, però verrei licenziato… il primario ha amicizie, coperture politiche, io no”. È l’inverno del 2013, due medici rievocano un intervento di cardiochirurgia andato male il 23 maggio di quell’anno nella sala operatoria dell’ospedale San Carlo di Potenza, 750 posti letti e centro di riferimento sanitario dell’intera Basilicata. L’uno ascolta, consola e registra. L’altro si dispera, si dispiace, si autoaccusa. “Ho un cruccio, non riesco a dormire…”.

Le fasi concitate sono rievocate nel flashback, in questa analisi delle responsabilità stampate sul nastro, insieme agghiacciante e disperato: la rottura della vena cava della paziente che stava sottoponendosi alla sostituzione della valvola aortica, l’autore della rottura che rimane “inebetito, spaventato” e presumibilmente immobile. La scelta di porre riparo a quella disgraziata e negligente manovra con una successiva che si rivelerà, ma qui siamo già al cuore del conflitto, ancor più lesiva delle residue speranze di vita di Elisa, 71 anni. Entrata viva e uscita morta. I due parlano, l’uno spiega, rievoca, accusa. Viene deciso un clampaggio (azione di blocco dell’emorragia a mezzo di un morsetto chirurgico ndr), ma il clamp è strumento oltreché inutile ancor più scellerato. Non risolve anzi accelera l’aggravarsi della condizione. Viene convocato d’urgenza il primario che, secondo questa confessione, opera per dare copertura a quell’atto di malasanità. Invece di risolvere la lacerazione, o forse ritenendo oramai irreversibile la scelta compiuta, decide di proseguire nell’operazione come se quell’incidente non fosse occorso e sostituire la valvola sapendo che sotto i ferri c’è una persona praticamente già morta. Questa manovra, che sa di cortina fumogena, servirà – secondo l’accusa del collega – a imputare a una delle tante complicanze post operatorie la causa del decesso.

Ai familiari della donna dichiarata morta appena approda in terapia intensiva (trascorreranno in effetti poche decine di minuti prima che l’exitus venga formalizzato e rubricato nella cartella clinica) non resta che accettare la rituale sconfitta della medicina, plausibile con la media della mortalità accettata in questi casi (intorno al 6 per cento). Muore la paziente, e succede ogni giorno che l’ospedale non riesca a tenere in vita tutti i suoi ospiti. Piangi e rassegnati. Ma sembra morire persino la verità .

Certo, la Procura della Repubblica apre il fascicolo, l’autopsia si fa, ma tutto avanza lento, tutto appare immerso in una nebbia difficile da diradare. Poi, sulla scrivania dei redattori di Basilicata24.it  , quotidiano online indipendente in una terra troppo piccola per non subìre le connessioni di famiglie e potentati, collegamenti eccentrici e irrituali nei ruoli e nelle funzioni di corpi dello Stato, giunge quel nastro. Che è più di una confessione, è la denuncia di un clima invelenito, di battaglie tra cardiochirurghi, inimicizie, corvi. Colui che confessa si compiace di “tenere per i coglioni” il primario: il silenzio in qualche modo vale e costa. Il nastro viene pubblicato. E qui una novità di rilievo. Il direttore generale Giampiero Maruggi dell’azienda sanitaria ammette che da anni la cardiochirurgia potentina respira un clima di continua “litigiosità”. “Ci sono conflitti, non posso negarlo. C’erano prima che giungessi io, e sono continuati dopo”. Sotto accusa è l’operato di Nicola Marraudino, il primario: “Rivendico la scelta, il suo curriculum è eccellente e nego che la politica si sia intrufolata, abbia condizionato, spinto, agevolato. Ho scelto sulla base della sua competenza e il suo arrivo è coinciso con un innalzamento del livello di efficienza di quel reparto. Questo è un dato statistico, conterà pure qualcosa”. Conterà, certo. Ma un altro fatto è sicuro. Fino a ieri si era tutti in attesa di una giustizia che non sembrava farsi largo. Aspettiamo Godot, e ciascuno al suo posto. Il nastro è almeno servito a scuotere l’ambiente. “Ho promosso un audit interno, tre cardiochirurghi di fama sono chiamati a valutare l’operosità, il clima, a indicare una strada, una soluzione. E non posso escludere che altri provvedimenti in queste ore possano essere presi in capo ai protagonisti di quella vicenda”.

Il direttore generale adesso non esclude più nulla, “anche se attenderei di decretare la verità prima di conoscere l’esito dell’inchiesta giudiziaria. I veleni fanno apparire come certo quel che poi si potrà mostrare infondato. Bisogna usare prudenza, in gioco c’è l’onore di professionisti seri”. Seri ma litigiosi. E quelle negligenze? Il procuratore capo Luigi Gay, fama di magistrato integro, approdato da poco alla guida degli uffici giudiziari: “L’inchiesta non ha languito, ha avuto il suo corso e avrà il suo esito. Gli accertamenti saranno ampi e profondi. Invito solo a non accettare le verità apparenti e attendere un altro po’”. L’attesa è un atto dovuto, ma il nastro denuncia le gesta del disonore. E oggi un paziente lucano con quale spirito accetterà il ricovero o l’operazione? “Comprendo l’obiezione”, dice il manager. Il presidente della giunta regionale Marcello Pittella gli chiederà una relazione urgente. Se quell’ospedale è divenuto un ring, sono in arrivo altre scazzottate da non perdere, e rivelazioni o veleni. Compendio disperante tra teoria e pratica della malasanità.