Il 17 novembre segna per l’Europa il momento in cui, per effetto del gender pay gap, le donne smettono simbolicamente di essere pagate mentre gli uomini continuano fino al 31 dicembre. Il divario medio Ue è del 12 per cento, convertito in giorni di lavoro svaniti. In Italia i numeri sono più duri: secondo il Rendiconto di genere Inps 2024, le lavoratrici perdono il 20 per cento della retribuzione, con punte del 40 nell’immobiliare e del 35 nelle professioni scientifiche. Una distanza antica, stratificata, che continua a produrre effetti in ogni snodo della vita professionale e che nessun governo ha mai affrontato come priorità.
Un divario che nasce dal lavoro e si allarga nelle carriere
Il gap orario “basso” è un’illusione statistica. Il divario reale emerge quando si mettono insieme ore lavorate, tipologia dei contratti e possibilità di avanzamento. Le donne sono sovra-rappresentate nei settori meno remunerati e sotto-rappresentate nei comparti ad alta redditività. Il part-time involontario coinvolge quasi metà delle lavoratrici in alcune regioni e incide su salario, contributi, stabilità.
Il Rendiconto Inps restituisce una fotografia lineare: il capitale umano femminile viene depotenziato proprio dove dovrebbe generare ritorno. Nelle professioni qualificate, nei servizi ad alto contenuto tecnico, nella finanza e nella ricerca, la forbice non si restringe. La maternità continua a fissare la curva retributiva: interruzioni, rientri penalizzati, progressioni assenti. È una dinamica che ha il passo della normalità, a forza di essere ripetuta, e che si somma a un’offerta di welfare spesso insufficiente a compensare i carichi di cura.
Nella media annuale il ritardo italiano diventa ancora più netto. I tassi di occupazione femminile restano tra i più bassi d’Europa, e il mercato del lavoro italiano offre meno ore, meno posizioni stabili e meno responsabilità alle donne. L’effetto finale è una perdita di reddito che non è episodica: è sistemica, si accumula nel tempo e si trasmette tra generazioni, come mostrano i dati sulla povertà educativa nelle famiglie monogenitoriali femminili.
Dal salario alla pensione: l’eredità delle disuguaglianze
L’effetto finale si vede nelle pensioni. In Italia gli assegni femminili sono più leggeri di oltre il 30 per cento, con differenze ancora maggiori nelle prestazioni contributive. Una carriera discontinua e sottopagata produce un’età anziana più esposta. Gli indicatori sul rischio di povertà lo confermano: il divario non si chiude al termine della vita lavorativa, si amplifica.
Il quadro internazionale non corregge il pessimismo. Il Global Gender Gap Report 2025 stima che serviranno 123 anniper chiudere il divario complessivo di genere. L’Italia staziona nella parte bassa della classifica, con risultati fragili sulla partecipazione economica e una rappresentanza politica ancora ridotta. È il segno di un sistema che non valorizza il lavoro femminile né nella retribuzione né nel potere decisionale.
Gender pay gap: la direttiva Ue
La Direttiva Ue sulla trasparenza salariale prova a intervenire nel punto cruciale: aprire i libri paga, vietare il segreto salariale, imporre il reporting delle differenze oltre il 5 per cento. Le associazioni datoriali parlano di costi e burocrazia; i sindacati rivendicano “lo strumento minimo” per poter dimostrare le disparità. È il conflitto previsto quando la trasparenza smonta consuetudini consolidate.
L’Italia è una delle poche nazioni europee senza un Equal Pay Day nazionale. Un vuoto simbolico che pesa: i simboli servono a rendere visibile ciò che i numeri hanno già chiarito. Ogni anno, per milioni di lavoratrici, decine di giorni di lavoro svaniscono. L’Europa ne conta quarantacinque. In Italia sono molti di più. In assenza di una politica che affronti il problema come struttura e non come parentesi, continueranno