A febbraio 2026 Milan e Como giocheranno a Perth, in Australia. La Lega Serie A lo definisce un esperimento, la Uefa una deroga concessa «con riluttanza». È il primo match di campionato italiano disputato fuori dall’Europa, giustificato dall’indisponibilità di San Siro per la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina. Ma la ragione logistica copre un progetto politico e commerciale più ampio: trasformare il campionato in un prodotto da esportare, non più un rito di appartenenza territoriale.
L’Optus Stadium, sessantamila posti nell’estate australe, dista tredicimila chilometri dal cuore della Serie A. Il viaggio durerà oltre venti ore, con sette fusi orari di differenza. A febbraio, quando la temperatura a Perth sfiora i quaranta gradi, Milan e Como saranno nel pieno del calendario: coppe europee, Coppa Italia, turni infrasettimanali. Fifpro denuncia da anni l’aumento di infortuni dovuti ai carichi e ai voli intercontinentali. La “partita di casa” diventa così una trasferta estrema che svuota di senso l’equità della competizione.
I tifosi esclusi dal loro stesso campionato
La Uefa, nel concedere l’eccezione, ha ricordato che i campionati nazionali devono restare nel territorio d’origine per tutelare integrità e tifosi. La Lega ha risposto con entusiasmo, presentando l’evento come «un’occasione per espandere il brand». È la stessa logica che muove LaLiga spagnola, pronta a portare una gara a Miami: il calcio europeo tenta la conquista di nuovi mercati mentre perde consenso nelle curve di casa.
Per gli abbonati del Milan la gara “casalinga” all’estero significa un diritto negato. Non esiste ancora una politica ufficiale di rimborso o compensazione. La curva rossonera ha già annunciato protesta, rivendicando che «un campionato non è una tournée». Anche l’Associazione tifosi europei (Fse) parla di “tradimento del pubblico locale”.
Un precedente che svuota il senso del gioco
L’operazione è discutibile anche sul piano economico. Un biglietto in Australia costerà tra i 60 e i 100 euro; l’orario serale di Perth corrisponde alle prime ore del pomeriggio in Italia, fascia televisiva debole e fuori dal prime time dei broadcaster nazionali. Si moltiplicano i costi di viaggio, sicurezza e assicurazioni, mentre l’impatto ambientale di due squadre in volo per mezzo mondo contraddice le dichiarazioni di sostenibilità del calcio europeo.
Dietro la vetrina australiana si intravede la direzione del nuovo business: trasformare ogni partita in un evento globale e sradicare il legame territoriale che ha fondato il calcio. La Lega parla di “promozione del marchio”, ma nei fatti sancisce la fine del campionato come competizione comunitaria. La Serie A, che fatica a riempire gli stadi italiani, si illude di trovare pubblico e profitti altrove.
A Perth si giocherà probabilmente di sera, con break per il caldo e regole adattate al clima. La promessa è di uno spettacolo internazionale; il rischio, di un precedente che renda ordinario l’eccezionale. Se l’esperimento riuscirà, nulla impedirà che in futuro un derby o una sfida scudetto si disputi a Dubai, a New York o a Singapore.
Il Milan Club di Perth festeggia, i tifosi italiani no. Perché un campionato che viaggia verso l’altro emisfero smette di essere un gioco di casa. Diventa un format da esportare, come un reality globale con lo sponsor in primo piano. E quando il calcio smette di appartenere ai suoi luoghi, non resta che la confezione: patinata, redditizia, ma senz’anima.